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Ne parlo con un amico o con uno psicologo?
Davanti a una questione che ci assilla spesso parlare con qualcuno può aiutarci in diversi modi. Condividere il problema, sfogarsi, ricevere un consiglio (o a volte anche solo un abbraccio) aiuta a fare luce e ridare serenità. Ma in quali situazioni il consiglio di un amico non basta ed è meglio rivolgersi a uno psicologo? Qual è la differenza tra amico e psicologo?
Amico o Psicologo?
Se avessi la possibilità di parlare con uno psicoterapeuta o con un amico, forse la maggior parte di noi sceglierebbe di parlare con un amico. Come mai? Per diverse ragioni. Gli amici ci danno consigli che vogliamo sentire. Abbiamo l’impressione che i nostri amici si prendano cura di noi e vogliano il meglio per noi. E poi, parlare con un amico non costa nulla. Al massimo, quando avranno bisogno di te, gli restituirai il favore.
La psicoterapia, invece, ha lo scopo di aiutare le persone a comprendere e rimediare a un problema.
Le persone vanno in terapia per tutti i tipi di motivi. A volte per trattare un sintomo clinico, come ansia, panico, depressione, stress, ecc. Altre volte, invece per problemi relazionali, di coppia, sul lavoro, ecc.
Chi trova un amico trova un tesoro…
L’amicizia è un bene così prezioso e raro da essere equiparata a una persona che trova un tesoro! L’amicizia è un valore fondamentale capace di superare i confini spaziali, i legami di sangue, le stagioni della vita e di liberarci da tante paure. Ci capita sempre più spesso di sentire affermazioni tipo “ il cane è il miglior amico dell’uomo”. Personalmente questa frase mi fa venire i brividi. Il miglior amico dell’uomo è l’uomo. Troppo comodo un cane da comandare. Tutt’altra storia avere a che fare con esseri umani come noi. Giocarsela alla pari. Scendere dal piedistallo di voler comandare e farsi obbedire.
Qualcuno ha definito le amicizie la famiglia che ci scegliamo. Ed è davvero così. Infatti, se genitori, fratelli, sorelle, ecc. ci vengono dati senza che noi abbiamo possibilità di scelta. non è così per gli amici. Siamo noi a scegliere o a essere scelti e chiamati a un rapporto di amore, fiducia e rispetto reciproci.
Con un amico puoi condividere gioie e dolori, puoi confidarti, aprire il tuo cuore. Ma ci sono situazioni nelle quali il consiglio di un amico non ci basta. Perché?
… e chi trova uno psicologo?
Tante volte le persone arrivano in terapia portando una questione che li assilla e che sembra irrisolvibile. Le hanno provate tutte. Dall’autoanalisi della situazione, al confronto con un amico o con il partner. Ma nulla è servito a migliorare le cose. Diciamocelo: per alcune situazioni il consiglio di un amico non basta. Perché? Cos’ha lo psicologo che l’amico non ha?
Ci sono molte differenze tra il sostegno che può offrire un amico e la relazione terapeutica con lo psicologo. Vediamone assieme qualcuna.
- Lo psicoterapeuta (a differenza dell’amico) è un professionista della salute mentale autorizzato e formato per aiutare i propri pazienti a migliorare la propria vita, sviluppare le competenze necessarie per far fronte alle sfide e alle situazioni della vita. Lo psicoterapeuta, infatti, è stato specificamente formato (di solito un percorso di psicologia+psicoterapia dura almeno 10 anni!) nella scienza (e nell’arte) del comportamento umano, della conversazione, interpretazione, valutazione e trattamento sia di disturbi mentali che di questioni non cliniche (per esempio relazionali). Anche se spesso può sembrare una conversazione “casual”, il terapeuta sa porre domande durante la sessione per aiutarti a scoprire il significato e riflettere sulle esperienze di vita e su come queste hanno plasmato la tua situazione attuale. Può aiutarti a guardare come i tuoi pensieri, le tue emozioni e il tuo dialogo interiore contribuiscono a generare e mantenere la situazione problematica in atto. L’amico no.
- La terapia ha confini chiari. La psicoterapia si gioca in un setting clinico, sicuro, confidenziale, professionale, solidale ed empatico per esplorare gli aspetti di sé difficilmente valutabili in setting non clinici, come nelle amicizie o nelle altre relazioni personali. Infatti, incontrerai il tuo terapeuta a un’ora specifica e di solito nel suo ufficio online o in presenza. L’amico, invece, è reperibile (quasi) sempre.
- In terapia, il focus è su di te. In un’amicizia, sia tu che il tuo amico ascoltate i problemi l’uno dell’altro e vi supportate a vicenda. Nella relazione terapeutica, l’attenzione è esclusivamente su di te. Un terapeuta, a differenza di un amico, non parlerà mai dei propri problemi poiché il focus della relazione terapeutica è su di te.
- Lo psicoterapeuta è obiettivo. Poiché non ha una relazione personale con te (ma soltanto professionale), lo psicoterapeuta non è influenzato dai sentimenti personali. Ed è imparziale quando guarda alla tua situazione e ascolta la tua storia.
- La psicoterapia è un processo di dispiegamento della nostra saggezza intrinseca che spesso è intrappolata sotto strati di condizionamento o paura. I nostri amici spesso sono felici o tristi per noi ma in genere non si occupano di supportare la crescita e il cambiamento a lungo termine. Né, tantomeno, sono capaci di guarirci da sintomi o disturbi mentali. Non basta parlare con un amico per guarire dall’ansia, dal panico o dalla depressione. Sarebbe come dire, se ho l’appendicite o una gamba rotta ne parlo con un amico e guarirò.
Ricordo ancora come una mia paziente definì la psicoterapia online per curare i suoi attacchi di panico:
“E’ stata una delle esperienze più preziose della mia vita. Nei miei momenti di prova personale, la psicoterapia online è stato un porto sicuro, un luogo in cui ricevevo feedback, intuizioni e prospettive uniche da qualcuno che non mi conosceva ma che sapeva leggere dentro di me”.
Potremmo riassumere la differenza tra parlare con un terapeuta e un amico con questa analogia: lo psicoterapeuta è come un allenatore che dalla panchina osserva la tua vita. I tuoi amici, invece sono i tuoi compagni di squadra, che giocano con te e proprio per questo non hanno una prospettiva più ampia su quello che succede in campo. Entrambi i ruoli sono importanti ma le funzioni di ciascuno sono diverse.
Attacco di panico o attacco di solitudine?
Le teorie psicologiche classiche considerano l´attacco di panico come una risposta di paura intensa, esagerata, incontrollata e inappropriata. Secondo queste teorie la paura scaturirebbe dall´attivazione dell´amigdala e di altre aree cerebrali che regolano l´emozione della paura. Di conseguenza, gli approcci psicoterapeutici che prendono le mosse da questa teoria (specialmente la psicoterapia cognitivo comportamentale) hanno per obiettivo la riduzione dello stato di paura del paziente. Esercizi di desensibilizzazione, di esposizione, la disputa dei pensieri disfunzionali ecc., sono tra i principali compiti e tecniche che si offrono al paziente nel tentativo di ridurre la sintomatologia. Alcune teorie fenomenologichguardano invece a certe forme di attacco di panico come attacco di solitudine.
La brutta notizia
La brutta notizia, però, è che spesso tali interventi non danno risultati duraturi. Inoltre, sappiamo anche che i farmaci come le benzodiazepine hanno uno scarso effetto sull´incidenza del panico. Invece, gli SSRI (una classe di antidepressivi) sono considerati i farmaci di elezione per combattere il panico.
Una nuova teoria sul panico
La teoria fenomenologica offre una nuova visione sul concetto di panico. Secondo questa teoria, il panico non sarebbe tanto (o soltanto) un attacco di paura intensa, esagerata, incontrollata e inappropriata. Invece, il panico è l´esperienza che si fa quando ci troviamo esposti a situazioni che percepiamo come potenzialmente incontrollabili e contemporaneamente sentiamo di non avere nessuno su cui poter contare. Attacco di panico o attacco di solitudine, quindi?
A corroborare questa visione del panico concorrono alcuni dati provenienti dalla ricerca. Innanzitutto, uno dei sintomi del panico è la fame d´aria. Ebbene, la fame d´aria occorre raramente in situazioni di paura acuta, generata da un evento esterno. Inoltre, a differenza della paura, durante un attacco di panico non assistiamo all´attivazione del sistema HPA. Il sistema HPA regola la risposta allo stress. Questo sistema sembra essere addirittura inibito dal panico. La tachicardia e le altre forme di attivazione fisiologica durante un attacco di panico sono invece prodotte da una soppressione vagale (parasimpatica) piuttosto che da un´attivazione simpatica.
Inoltre, durante un attacco di panico, l´esperienza principale è quella di stare per morire o impazzire. La paura arriverebbe soltanto in un secondo momento. E riguarda, in genere, la preoccupazione che un attacco di panico possa ripetersi. Oppure che si abbia qualche malattia. O che si possa impazzire. Secondo questa visione, la paura sarebbe quindi secondaria e successiva all´attacco di panico (sicuramente almeno al primo attacco di panico, aggiungerei io). Infatti, è solo dopo il primo attacco di panico che la persona di solito inizia a vivere in uno stato di forte angoscia, ansia anticipatoria e sviluppa una paura dei sintomi del panico!
Panico e difficoltà a riconoscere le emozioni
Dopo il primo attacco di panico la persona di solito inizia un ossessiva quanto eccessiva autoosservazione. Perché? Per intercettare e controllare ogni minima variazione corporea che possa somigliare all´esperienza di panico. Ma così facendo, la persona non presta attenzione agli elementi contestuali nei quali i sintomi possono emergere. Non di rado chi soffre di panico soffra anche di alessitimia.
L´alessitimia (dal greco a- «mancanza», lexis «parola» e thymos «emozione» dunque: «mancanza di parole per [esprimere] emozioni») è un costrutto psicologico noto anche come analfabetismo emotivo che descrive una condizione di ridotta consapevolezza emotiva. L´alessitimia comporta l’incapacità sia di riconoscere sia di descrivere verbalmente i propri stati emotivi e quelli altrui. Le persone che soffrono di panico non sono né inclini né capaci di chiedere aiuto. Sono spesso diffidenti. Non sanno riconoscere ed esprimere le loro necessità affettive.
Non stupisce che il panico si manifesti proprio in situazioni in cui la persona sta attraversando un passaggio importante della sua vita. La laurea, il matrimonio, un trasloco, un cambio lavorativo, difficoltà relazionali o economiche, la morte di un caro, la fine (ma anche l´inizio!) di una relazione affettiva. Cos´hanno in comune queste situazioni? La persona si sente maggiormente esposta al mondo, un mondo nuovo, spesso sconosciuto, in cui il contesto relazionale non funge più da sponda per contenere la piena che sta per investire la vita della persona.
In poche parole, ci si sente soli in balìa del mondo. Proprio come un bambino che, al supermercato, improvvisamente si accorge di essersi perso e non trova più i suoi genitori.
Panico e agorafobia
L´agorafobia è forse la situazione che meglio incarna questa sensazione. La paura di trovarsi in spazi aperti diviene metafora del trovarsi esposti a un mondo senza la necessaria mediazione affettiva. Non stupisce, quindi, che chi soffre di panico e di agorafobia, abbia bisogno di una persona che stia con lui/lei proprio per non sentirsi soli in balìa del mondo.
Panico e claustrofobia
Anche il timore di sentirsi costretti in una situazione può elicitare un attacco di panico. Da un lato, come abbiamo visto, chi soffre di panico tende a ricercare la vicinanza e il contatto con l´altro per non sentirsi solo al mondo. Dall´altro, però, l´eccessiva vicinanza dell´altro viene vissuta come asfissiante. Una relazione che sta per sfociare in una convivenza o un matrimonio, le imposizioni sul lavoro, ecc. sono situazioni emblematiche nelle quali chi soffre di panico fatica a trovarsi.
Panico o ansia da separazione?
In virtù di quanto sopra esposto alcune correnti fenomenologiche, di stampo gestaltico, guardano al panico come a un sottotipo di ansia da separazione piuttosto che a una paura generica. Nello specifico, il panico viene considerato un attacco acuto di solitudine.
Panico, depersonalizzazione e derealizzazione
La depersonalizzazione e la derealizzazione sono sintomi dissociativi molto comuni in chi soffre di panico. Come dicevamo, chi soffre di questo disturbo tende a non riconoscere le proprie emozioni (né tantomeno i contesti nei quali queste si generano). Né a riconoscere la causa psicologica e sociale dei sintomi, ai quali invece imputa una causa somatica. Svuotata dalla componente psicologica, l´esperienza di separazione, caratterizzata da angoscia e smarrimento, assume le sembianze della depersonalizzazione e della derealizzazione. Le sembianze di un corpo-organismo che soffre, patisce e non di un corpo-vivo in una situazione “scomoda”. Esperienze traumatiche in età infantile sembrano giocare un ruolo nella manifestazione, in età adulta, di depersonalizzazione e derealizzazione.
Eterogeneità del panico e implicazioni cliniche per una buona psicoterapia
Il panico è un disturbo mentale complesso e multisfaccettato. È caratterizzato da un insieme di sintomi (ben 13!) che si combinano in maniera diversa in diversi individui. Non esiste e non può esistere una psicoterapia valida per ogni caso di panico (così come di nessun altro disturbo mentale). In primis perché comunque si ha davanti a sé, ogni volta, una persona diversa. In secundis perché la combinazione dei 13 sintomi del panico varia sia tra persone diverse che nella stessa persona.
La psicoterapia deve tener conto della specificità di ciascun caso e farsi personalizzata e cucita su misura su ciascun individuo. Attraverso la relazione terapeutica la persona che soffre di panico ricomincia a ritornare gradualmente in sintonia con i propri stati emotivi. E impara a riconoscere i contesti comodi da quelli scomodi. Uno dei miei scopi nella terapia del panico è permettere alla persona di accorgersi delle loro emozioni e necessità che spesso sono state misconosciute per troppo tempo. La relazione terapeutica infine può fungere da contesto che aiuta la persona a sì muoversi verso l’indipendenza e all´autonomia. Senza sentirsi sopraffatto dal mondo e senza dover necessariamente rinunciare all’altro.
Fumare aiuta a gestire l´ansia?
Fumare aiuta a gestire l’ansia? I danni provocati dal fumo di sigaretta sono oramai noti. Il fumo fa aumentare la pressione arteriosa, accelera l’aterosclerosi, ostacolando la circolazione del sangue nei vasi e aumentando il rischio di infarto e ictus. I problemi circolatori causati dal fumo possono, a loro volta, determinare impotenza nell’uomo, declino mentale e invecchiamento precoce della pelle.
Tante persone fumano quando si sentono stressate o in ansia e riferiscono che fumare sia un metodo anti stress e anti ansia. Ma è davvero così?
Tutt´altro! La nicotina, infatti, non ha un´azione rilassante bensì attivante. Non c´è da stupirsi che il fumo di sigaretta aumenti il rischio di soffrire di disturbo di panico con o senza agorafobia.
Fumare crea affanno e un senso di debolezza. In chi è già ansioso questi sintomi possono esacerbare l’ansia. In chi già soffre di attacchi di panico, poi, l’oppressione fisica o pesantezza al petto può acuire il malessere o addirittura scatenare l’attacco.
Fumare aiuta a gestire l’ansia?
Sebbene la causa dell´associazione tra panico e fumo rimanga controversa, le principali spiegazioni sono le seguenti:
1️⃣ il fumo di sigaretta promuove il panico inducendo anomalie respiratorie, malattie polmonari o aumentando le sensazioni corporee potenzialmente causa di paura.
2️⃣ la nicotina produce effetti fisiologici caratteristici del panico rilasciando noradrenalina.
3️⃣ chi soffre dl disturbo di panico usa le sigarette come automedicazione.
4️⃣ una vulnerabilità condivisa promuove entrambe le condizioni.
Ma allora perché tante persone riferiscono di sentirsi meno stressate e meno in ansia dopo aver fumato?
Questo può succedere quando la persona ha una dipendenza dalla nicotina. Se non si fuma per un certo periodo di tempo, l´organismo inizia a reclamare nicotina perché va in uno stato di astinenza. Sarebbe quindi l´astinenza a manifestarsi con sintomi di ansia e stress. Ed è per questo motivo che, una volta fumato, i livelli di ansia e stress diminuirebbero sensibilmente. Ma questo ovviamente non significa che il fumo abbia proprietà anti ansia o anti stress.
È stato invece appurato che smettere di fumare giova a chi soffre sia di stress che di ansia .
La psicoterapia può aiutarti a smettere di fumare. Torna a respirare e dai un calcio al panico. Cervello, cuore e polmoni ti ringrazieranno.
Hai letto: fumare aiuta a gestire l’ansia?
È possibile guarire per sempre dal panico
E’ possibile guarire per sempre dal panico? Sì. Dal panico si guarisce. Gli esiti a breve termine del trattamento di questa invalidante psicopatologia sono tra le più grandi storie di successo della psichiatria. Solo 50 anni fa, gli attacchi di panico ricorrenti erano considerati una condizione altamente resistente al trattamento. Ma oggi, i trattamenti psicoterapici e farmacologici per il disturbo di panico sono tra gli interventi più efficaci in psichiatria.
Il rischio di ricaduta nell´ansia e nel panico
Molti pazienti che soffrono di un disturbo d´ansia non rispondono ai trattamenti e i tassi di recidiva sono davvero alti. Uno studio sulla depressione e l’ansia condotto nei Paesi Bassi ha evidenziato che dopo 2 anni, più di una persona su cinque aveva sperimentato una ricaduta. I tassi di recidiva su un periodo di 12 anni sono ancora più alti: 56% per il disturbo di panico senza agorafobia, 39% per la fobia sociale e il 45% per il disturbo d’ansia generalizzato.
Si è quindi condannati a convivere per sempre con l´ansia e il panico?
No! E’ possibile guarire per sempre dal panico. E dall’ansia. Però non dobbiamo confondere l´ansia fisiologica da quella patologica. La prima, in quanto emozione, continuerà a manifestarsi in diversi momenti della nostra esistenza. E questo non deve farci preoccupare. Viceversa, l´ansia come psicopatologia può essere curata efficacemente attraverso un percorso di psicoterapia che sappia intercettare sia la dinamica temporale dei sintomi sia i contesti nei quali i sintomi di ansia e panico emergono.
Uno dei problemi principali per chi soffre di ansia e panico è che spesso la persona non riesce a capire da dove emerga la sofferenza. Questo succede in parte perché la persona resta “ipnotizzata” dai sintomi stessi e si ripiega eccessivamente su cosa succede nel proprio corpo. Ma così facendo tende a non prendere in considerazione i contesti o le situazioni esistenziali che fanno da cornice all´emergere e al manifestarsi dei sintomi.
Il racconto dei pazienti che seguo per un problema di ansia o panico è spesso incentrato su cosa succede nei loro corpi. I sintomi fisici del panico, come la fame d´aria, la tachicardia, le vertigini, vengono descritti con meticolosità. La stessa cosa succede con i sintomi cognitivi del panico: la sensazione di irrealtà, di distacco dal corpo, la paura di morire o di impazzire sono ben presenti nella memoria di chi ne soffre.
Ciò che viene narcotizzato nel racconto dei miei pazienti è, invece, il contesto nei quali questi sintomi emergono. Come ti sei sentito in quella situazione? Che emozioni hai provato quando hai appreso quella notizia? Ecco, molto spesso a queste domande i miei pazienti restano muti. Al massimo ritornano sul racconto di cosa sia successo nel loro corpo. Ma in chi soffre di ansia e panico l´esperienza emotiva sembra non essere accessibile.
Come risolvere il problema?
Uno strumento che utilizzo con successo nella cura di ansia e panico è il diario. Dopo le prime sedute di approfondimento diagnostico chiedo sempre ai miei pazienti di tenere un diario di bordo. Chiedo loro di annotare tutte le situazioni che sono in grado di attivare, positivamente o negativamente, la persona da un punto di vista emotivo. Chiedo anche di provare a descrivere assieme ai sintomi fisici dell´ansia o del panico, manche come ci si sente emotivamente nelle diverse situazioni durante la giornata.
Con il passare del tempo, le persone prendono confidenza con lo strumento e iniziano a fornire resoconti sempre più dettagliati delle emozioni che provano nei contesti che abitano. È allora che avviene il “miracolo”. I sintomi fisici e cognitivi che prima sembravano muti e arrivare da chissà dove iniziano a essere sempre più prevedibili. La persona finalmente riesce a dare un senso alla propria sofferenza. Adesso comprende che quel cuore che batte all´impazzata, della sensazione di stare per soffocare, della vertigine o del capogiro sono modi di essere emotivamente situati a seconda delle situazioni nelle quali si trovano.
Guarire dal panico… Correva l´anno 1942 quando Gordon Allport chiamò i ricercatori a utilizzare metodi e strumenti nelle scienze psicologiche che potessero misurare l´esperienza viva del paziente, affermando: “La conoscenza dei particolari è l’inizio di ogni conoscenza… la psicologia ha bisogno di occuparsi della vita così com’è vissuta”. In questo senso il diario è uno strumento che mira a rispondere a questo invito, favorendo la raccolta di dati nella vita quotidiana, spesso utilizzando misurazioni ripetute dei dati in tempo reale in situazioni autentiche e naturali.
Un diario contro il panico
Il diario può essere compilato attraverso una varietà di metodi . Può essere cartaceo ma si possono utilizzare anche applicazioni per smartphone o le note del nostro cellulare. Può prevedere un campionamento temporale casuale (ad es. i dati vengono raccolti in momenti casuali nel corso di
un giorno) o, cosa che preferisco, il campionamento può essere basato sugli eventi (cioè i dati registrati quando una certa condizione è soddisfatta, come in un soggetto che sta vivendo un attacco di panico).
Tuttavia, la caratteristica principale dei dati raccolti attraverso il diario è che mirano a “catturare la vita così com’è vissuta”. In tal modo è possibile fornire racconti dettagliati ed ecologicamente validi che diventano materiale prezioso durante le sedute di psicoterapia.
L´utilizzo del diario riduce al minimo il rischio di fornire dati poco corretti sull´esperienza fatta. La memoria spesso ci inganna infatti ed è influenzata anche dallo stato emotivo presente. In secondo luogo, l´utilizzo del diario riduce al minimo la selettività quando si descrive l´esperienza.
Infine, i dati trascritti nel diario forniscono informazioni minori che non sarebbero accessibili utilizzando approcci metodologici tradizionali (come il racconto orale di cosa sia successo nelle ultime due settimane). Nel diario vengono invece registrate informazioni preziose sui processi mentre si svolgono. Ad esempio, l’aumento e la diminuzione dell’ansia durante il giorno, comportamenti di evitamento, eccetera.
E’possibile guarire per sempre dal panico? Sì!
Nelle nostre sedute di psicoterapia ti insegnerò a scrivere un diario per aiutarti a riconoscere le situazioni e i contesti nei quali è probabile che emergano sintomi di ansia e panico. Sarà un´abilità che ti tornerà utilissima anche quando la terapia sarà conclusa perché sarai in grado, in autonomia, di monitorare e riconoscere le tue emozioni nei diversi contesti. Chiamami oggi per fissare un appuntamento. Ed esci dalla spirale di ansia e panico.
Il disturbo borderline di personalità
Come riconoscere se soffri di disturbo borderline di personalità? E quali sono le cure migliori per questa psicopatologia? Lo scopriamo insieme in questo articolo.
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Che cosa è un disturbo di personalità?
I disturbi di personalità sono disturbi mentali che compaiono di solito nella prima età adulta. Si caratterizzano per configurazioni tutto sommato stabili di stili affettivi, cognitivi e relazionali che connotano il carattere del soggetto e ne influenzano i comportamenti. Quando si parla di “disturbi di personalità”, quindi, non indichiamo forme di disagio psichico transitorie, quanto modalità stabili e patologiche di rapportarsi con sé stessi e con gli altri.
Che cos´è il disturbo borderline di personalità?
Il disturbo borderline è uno dei tanti disturbi di personalità.
Instabilità e conflittualità sono due caratteristiche frequenti di chi ne soffre. La persona vive spesso un ipercoinvolgimento patologico nei rapporti con partner, amici o familiari.
La sensibilità a possibili segnali di rifiuto da parte dell’altro è particolarmente sviluppata. Per esempio, di fronte a una critica o a un rifiuto, la persona che soffre di un disturbo borderline tende a reagire in maniera eccessiva, mostrando rabbia e aggressività incontenibili.
La paura dell´abbandono
Spesso, poi, le personalità borderline instaurano delle relazioni di tipo dipendente. Ciò che temono maggiormente è di essere abbandonate. L’abbandono, in effetti, è una evenienza che può spingerle addirittura verso atti di natura autolesionistica. Il tentativo di procurarsi un danno può essere dettato dalla disperazione evocata dall’abbandono. Ma non è raro che si tratti di azioni manipolative che che hanno lo scopo di attirare l’attenzione di chi non si vuole perdere. La manipolazione, del resto, è un’altra costante delle relazioni con le persone che soffrono di disturbo borderline. È una strategia messa in atto quando il partner o una persona significativa non rispondono ai bisogni espressi.
Le difficoltà interpersonali
Relazionari con una persona che soffre di questo disturbo, per tutti questi motivi, non è semplice. Anzi, è spesso fonte di preoccupazione e stress. Un rischio, inoltre, è quello di essere oggetto di una fastidiosa alternanza tra l’idealizzazione e la svalutazione. Spesso senza soluzione di continuità, un giorno si è messi in discussione. E il giorno dopo si può essere trattati come se si fosse la migliore delle persone. Accanto alla elevata instabilità interpersonale, le persone che soffrono di un disturbo borderline presentano problematiche di natura cognitiva e nell’immagine di sé.
Come si sente chi soffre di disturbo borderline
Concretamente, chi soffre di questo problema ha un´immagine di sé poco sviluppata e definita e sperimenta spesso sentimenti di vuoto. In genere, presenta un funzionamento di tipo “tutto o nulla” e la capacità di individuare obiettivi e fare dei progetti è compromessa. La persona, cioè, è volubile e può modificare le proprie convinzioni facilmente. Questo modo di essere contribuisce a rendere infruttuosi i progetti intrapresi e a cambiare frequentemente i propri obiettivi. L’incapacità di perseverare nel perseguire uno scopo e nel portare a termine i propri piani ha come conseguenza un frequente peggioramento dell’autostima. A questo si associano senso di colpa, vergogna e una critica eccessiva nei propri confronti.
Nei periodi di particolare stress possono essere riscontrati sintomi psicotici veri e propri. L’altro può essere vissuto come un nemico che ha cattive intenzioni. La persona può non riconoscere più sé stessa o il proprio mondo, avvertendo di essere prossima a un cambiamento catastrofico o di vivere in un contesto estraneo.
Le emozioni nel disturbo borderline
Il quadro del disturbo borderline si caratterizza inoltre per un´elevata disregolazione emotiva e comportamentale. Si passa da momenti di relativa calma a momenti di estrema instabilità caratterizzati dalla generale difficoltà a gestire le emozioni.
Inoltre le persone che soffrono di disturbo borderline sono incapaci di tollerare la frustrazione. Per questo motivo in condizioni stressanti possono mettere in atto comportamenti aggressivi. Trovando difficile prevedere le conseguenze delle proprie azioni, poi, si espongono con facilità a situazioni di rischio. Una ulteriore caratteristica è l’impulsività. Le persone con disturbo borderline di personalità possono ricorrere all’uso di sostanze, a condotte sessuali promiscue, a spendere il denaro in maniera poco oculata, ecc…
Quali trattamenti per il disturbo borderline?
Il disturbo borderline di personalità compromette il funzionamento relazionale, sociale e lavorativo della persona. È per questo importante richiedere un aiuto specialistico che possa integrare un intervento farmacologico e la psicoterapia. Solo in alcuni casi di particolare gravità, inoltre, potrebbe essere necessario il ricovero ospedaliero, intervento cui si ricorre nei momenti di crisi e di forte scompenso.
Il trattamento farmacologico può prevedere l´utilizzo di farmaci stabilizzanti dell´umore o di antipsicotici atipici. I farmaci possono facilitare anche il lavoro di psicoterapia, necessario per il raggiungimento di diversi obiettivi. Tra questi aumentare la finestra di tolleranza della persona rispetto alle frustrazioni e migliorare le abilità sociali. Ma anche aiutare la persona a essere consapevole dei meccanismi alla base dei comportamenti di rischio. E a supportarla nello sviluppo e nel mantenimento di un progetto di vita.
Importanti obiettivi terapeutici, inoltre, riguardano la possibilità di incrementare la consapevolezza su di sé e sul ruolo giocato nelle relazioni interpersonali ed intime. Ciò al fine di rendere meno problematica e conflittuale la sfera dei rapporti con l’altro.
Si è consapevoli della malattia?
Per concludere, si può ricordare che non sempre le persone che soffrono di disturbo borderline hanno consapevolezza dei propri problemi. Spesso infatti attribuisconoo le proprie difficoltà a chi le circonda. Non a caso, sono i familiari, il partner o gli amici a spingere la persona a rivolgersi a uno psicologo-psicoterapeuta. Sono loro spesso a riconoscere per primi la problematicità di alcuni comportamenti ed atteggiamenti del proprio caro. Purtroppo si tratta di tentativi che, in svariate circostanze, non raggiungono l’obiettivo sperato. Proprio per questo motivo, se pensate che qualcuno dei vostri cari possa soffrire di questo disturbo, potrebbe essere utile chiedere un consulto anche al fine di ricevere informazioni e consigli su come gestire al meglio la relazione ed indirizzare la persona ad un intervento di supporto appropriato.
Riferimenti bibliografici
American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th ed.). Arlington, VA: American Psychiatric Publishing.
Gunderson, J., Herpertz, S., Skodol, A. et al. (2018). Borderline personality disorder. Nat Rev Dis Primers, 4, 18029.
Cos´è la pandemic fatigue?
Alzi la mano chi non ha sperimentato tristezza, stanchezza, angoscia in questi lunghi mesi di pandemia. Niente panico. In tempi di Covid-19 e lockdown queste emozioni e vissuti possono essere ritenuti normali. Ciò che forse non ci si aspetta, invece, è che lo stress possa ridurre la nostra capacità di proteggerci dal contagio. Che cosa si intende per pandemic fatigue? E quali sono gli effetti sui comportamenti di protezione dal virus?
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Da ormai un anno la popolazione mondiale è esposta ad una forma di stress cronico che si sta accompagnando a fatica, tristezza, ansia. Come si può leggere in un recente documento redatto dall’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS), la pandemic fatigue è una sindrome che può assumere forme diverse. Si tratta, cioè, di una costellazione di sintomi che possono variare nel tempo. Non solo. I sintomi possono variare ed essere diversi da persona a persona.
Quali sono i sintomi della pandemic fatigue?
Tra i sintomi più diffusi, vi sono un generale aumento della tensione e dello stress percepito. Frequenti pensieri e vissuti di carattere depressivo. E ancora, irritabilità, ansia, panico, insonnia e alterazioni dell’appetito. Si tratta di reazioni che possono essere ritenute normali in una condizione estremamente anomala e di incertezza quale è quella pandemica. In un certo numero di situazioni, però, questi indicatori di malessere hanno raggiunto un livello di significatività clinica, raccomandando attenzione clinica professionale.
In altri termini, se è normale sentirsi tristi, nervosi o stressati nel corso di una pandemia, non dovrebbero essere trascurate le forme di disagio che sentiamo di non poter più gestire da soli.
Chi è più a rischio?
Sono state sicuramente più colpite dalla pandemic fatigue le persone che hanno perso familiari e amici a causa del Covid-19. Ma anche chi ha perso il lavoro o ha visto tracollare la propria situazione economica. E ancora i soggetti vulnerabili per condizioni di vita o di salute. E infine chi sofferto in passato di forme di disagio psicologico. A queste categorie devono senza dubbio aggiungersi i professionisti che hanno gestito l’emergenza sanitaria.
Esposti a una pressione lavorativa imponente, si sono confrontati ogni giorno con la morte di pazienti e colleghi, spesso non sentendosi in condizione di poter fornire risposte assistenziali adeguate e temendo per la loro stessa vita. Del resto, la pandemia ha sollecitato un diffuso stress lavoro-correlato anche in altri professionisti. Tutti si sono dovuti abituare a modalità di lavoro differenti e si sente sempre più spesso parlare di techno-stress: la didattica a distanza ed il telelavoro hanno spesso peggiorato una situazione di tensione ed affaticamento generalizzati.
La pandemic fatigue influisce sul nostro modo di prevenire il contagio?
La pandemic fatigue, però, non ha un impatto solo sul nostro benessere psicologico, ma anche sui nostri comportamenti. In effetti, l’OMS si è interrogata su un aspetto molto specifico dello stress da Covid-19. E cioè quello della relazione con i comportamenti di protezione dal rischio di contagio. Essere esposti a uno stress durevole nel tempo, può demotivare le persone, con la stanchezza mentale che può avere la meglio sui comportamenti di prevenzione.
Questo diverso atteggiamento nei confronti della protezione dal contagio dipende in larga parte dalle nostre percezioni del rischio. Dopo diversi mesi di pandemia, per esempio, è come se ci fossimo abituati a convivere con il virus, ritenendolo meno pericoloso. In realtà, come dimostrato dal verificarsi della nuova ondata di contagi dopo l’estate, il virus non ha perso la sua pericolosità e l’impennata si è placata solo grazie a un nuovo lockdown.
La percezione del pericolo
Il verificarsi di nuove restrizioni e chiusure, però, ha favorito la diffusione di una percezione per cui il peso delle limitazioni imposte alla vita privata non risulta più commisurato ai benefici ottenuti nella lotta al virus. Nel complesso, si tratta di processi che possono rendere le persone meno accorte nel prevenire i contagi, un fenomeno che può essere amplificato anche dal parallelo bisogno di autodeterminarsi e sentirsi liberi.
Si tratta di una reazione nota a chi lavora, per esempio, negli ospedali o nelle residenze sanitarie. Molto spesso, la necessità di sottoporsi a cure e trattamenti determina una reazione che spinge a sottrarsi a cure e trattamenti anche attraverso forme di aggressività e protesta.
Pur nelle rispettive diversità, è quanto sta avvenendo anche rispetto ai fenomeni di coprifuoco, lockdown e limitazione della relazionalità.
Cosa fare se si soffre di pandemic fatigue?
Entrare in contatto con le proprie emozioni è un primo passo verso una maggiore consapevolezza e la costruzione di una migliore condizione di benessere. In questa direzione, può essere molto importante anche condividere le proprie emozioni e i pensieri sulla condizione di pandemia poiché la condivisione ha l’effetto immediato di farci uscire da una condizione di isolamento e solitudine che sono parte del problema.
Molto spesso, quando ci chiudiamo in noi stessi, ci priviamo della possibilità di rispecchiarci nell’altro, di comprendere che non siamo da soli nelle difficoltà, di osservare i problemi da un’altra prospettiva e di sviluppare strategie nuove e più funzionali.
È quanto possiamo sperimentare nell’ambito di un aiuto professionale.
Laddove diventasse difficile gestire sentimenti depressivi o un’ansia eccessiva ci si dovrebbe rivolgere a un professionista che, anche attraverso un colloquio online, possa indirizzarci verso la presa in carico più efficace. Occuparsi della propria salute mentale è infatti molto importante nel momento di crisi che stiamo vivendo. A maggior ragione perché le restrizioni hanno limitato le possibilità di ricevere supporto dalle nostre reti informali. Del resto, non bisogna dimenticare che la salute del nostro sistema immunitario dipende anche dal nostro benessere psicologico. Se ci sentiamo bene siamo anche più protetti dalle infezioni e dalle altre malattie.
Riferimenti bibliografici
World Health Organization (2020). Pandemic fatigue. Reinvigorating public to prevent COVID-19. Consultato su WHO-EURO-2020-1160-40906-55390-eng.pdf (dors.it)
Quando i figli se ne vanno.
La sindrome del nido vuoto accompagna molte famiglie quando si trovano di fronte alla decisione dei figli di andare a vivere da soli. Cosa fare per trovare un nuovo equilibrio?
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Che cos’è la sindrome del nido vuoto?
Sul finire degli anni Sessanta, la sindrome del nido vuoto ha fatto capolino in una delle canzoni dei Beatles (She’s leaving home). Ed è diventata un tema di discussione nell’ambito della psicologia e di altre scienze umane.
Sebbene non si tratti di una condizione clinica in senso stretto, la sindrome del nido vuoto può manifestarsi con sintomi di una certa gravità. Si tratta di una sindrome ansioso-depressiva che colpisce i genitori. A soffrirne sono, soprattutto le madri, quando i figli decidono di lasciare la casa genitoriale per andare a vivere da soli.
Quando il figlio esce di casa
Avviene prima o poi si verifica in tutte le famiglie. Anche se questo momento si è spostato sempre più in là negli anni. Fino a qualche decennio fa, i giovani contraevano matrimonio alle soglie dell’età adulta. Anche perché riuscivano ad ottenere un lavoro in grado di assicurare autonomia già subito dopo la maggiore età. Negli ultimi tempi, sono numerosi i figli che vivono con i genitori fino ad oltre i 30 anni. Si tratta di un fenomeno diffuso che, probabilmente, rende ancora più doloroso il trasferimento di un figlio. E così i genitori possono sperimentare tristezza e preoccupazione molto intense.
In effetti, il trasferimento di un figlio può essere vissuto come un vero e proprio lutto. Che richiede ai genitori di mobilitare tutte le proprie risorse emotive per accettare l’allontanamento e continuare la propria vita senza eccessiva sofferenza. Ciò è tanto più probabile se l’allontanamento dalla casa genitoriale non è stato negoziato e accettato dai genitori. Oppure se questi stanno vivendo anche altri momenti di crisi. Per esempio la menopausa, il pensionamento, accudire i propri genitori anziani, possono aumentare il rischio di sviluppare forme di disagio.
Quali genitori soffrono maggiormente della dipartita del figlio?
Ad essere particolarmente esposti, inoltre, sono i genitori single. Questi possono sentire di perdere ogni ragione di vita, soprattutto se si sono dedicati in maniera quasi esclusiva al benessere del figlio. Ma anche le coppie caratterizzate da alta conflittualità. E nelle quali il figlio assume spesso il ruolo di mediatore della loro relazione.
Come si manifesta la sindrome del nido vuoto?
Quando i figli se ne vanno, vissuti di carattere ansioso possono riguardare l’incolumità del figlio. Questo avviene nonostante il genitore si renda conto che si tratti di una persona adulta e capace di pensare a sé stessa. Vissuti di tristezza intensa e depressione, invece, possono essere alimentati dalla percezione, spesso priva di fondamento, di aver perso per sempre il proprio figlio. Tali vissuti possono dipendere da fattori diversi. In primo luogo dalla personalità del genitore e dalle sue particolari modalità di reagire agli eventi critici.
Nel caso specifico della sindrome del nido vuoto, però, bisogna considerare anche la qualità della relazione di coppia e le risorse genitoriali. In alcuni casila vita familiare èstata costruita intorno al ruolo di genitori. Può essere molto difficile abituarsi a una situazione in cui la dimensione marito-moglie torna ad essere quella saliente.
Ogni famiglia attraversa diverse fasi del ciclo di vita familiare. E sia la nascita dei figli che il loro diventare adulti costituiscono delle tappe evolutive importanti che richiedono notevoli aggiustamenti. Accogliere un terzo nella coppia marito-moglie, per esempio, può non essere semplice, determinando tensioni e richiedendo aggiustamenti relazionali. Lo stesso può dirsi quando il figlio si allontana da casa. E i genitori devono ritrovare una dimensione a due che, spesso, mette a nudo e di fronte alle crepe del rapporto.
Diade, triade…e ancora diade!
Diversi problemi di coppia, in effetti, possono essere accantonati per il bene dei figli. Inoltre, occuparsi di loro può essere una buona strategia per non affrontare le difficoltà relazionali tra moglie e marito. L’uscita di casa del figlio, quindi, può mettere sotto un riflettore tutte le difficoltà che erano state accantonate.
Del resto, però quando i figli se ne vanno ritornare ad essere coppia può rappresentare anche una opportunità. Si può beneficiare di una ritrovata intimità. E riscoprire il valore di avere del tempo da investire nel proprio rapporto e nei propri interessi. Riavvivare la propria vita individuale e di coppia, anzi, potrebbe rappresentare una buona strategia di fronteggiamento dello stress da nido vuoto.
Cosa fare se il dolore per l’allontanamento del figlio è troppo?
In alcuni casi i vissuti ansiosi e depressivi conseguenti al trasferimento di un figlio possono essere difficili da gestire senza un aiuto professionale. Se le reazioni sperimentate sono del tutto assimilabili a un lutto e si protraggono nel tempo, è consigliabile rivolgersi a uno psicologo-psicoterapeuta.
La psicoterapia infatti, può mettere a fuoco le ragioni di una reazione disfunzionale rispetto ad un evento che fa parte del normale ciclo di vita di ogni famiglia.
Talvolta, per esempio, i genitori che sviluppano la sindrome del nido vuoto hanno vissuto esperienze negative connesse all’allontanamento di persone di riferimento o a loro care.
In simili casi, quando i figli se ne vanno l´evento è in grado di ri-attivare vissuti traumatici che può essere utile trattare in un percorso psicologico.
Psicoterapia sì o no?
Quando i figli se ne vanno, un percorso di psicoterapia potrebbe supportare la persona nell’attivazione di risorse di fronteggiamento dello stress. E favorire una riorganizzazione delle routine quotidiane e la maturazione della consapevolezza che il rapporto con il figlio può essere alimentato anche a distanza. Una simile consapevolezza potrebbe passare attraverso una focalizzazione su aspetti e ricordi positivi del figlio, provando ad alimentare la sua presenza interna.
Un percorso di supporto psicologico potrebbe essere utile anche per gestire problemi di coppia. Soprattutto quando il trasferimento di un figlio abbia scatenato una crisi relazionale.
In entrambi i casi intraprendere il percorso in maniera tempestiva permette di anticipare ed evitare il radicarsi di problemi più cronici. Problemi che, con un valido aiuto, possono rientrare in poco tempo. E migliorare sia la qualità delle relazioni intrafamiliari che il benessere soggettivo.
Riferimenti bibliografici
Piper, A., & Breckenridge-Jackson, I. (2017). She’s Leaving Home: A Large Sample Investigation of the Empty Nest Syndrome. Consultato su (PDF) She’s leaving home: a large sample investigation of the empty nest syndrome (researchgate.net)
Römer, F. (2013). Quando i figli crescono: una bussola per genitori alle prese con figli adulti. Milano: Apogeo.
Binge eating disorder. Abbuffarsi per riempire il vuoto?
Il disturbo da alimentazione incontrollata (o binge eating disorder) è un disturbo alimentare che si accompagna ad elevati livelli di disagio psicologico e può avere un impatto sulla condizione di salute della persona. Come riconoscerlo?E cosa fare per contrastarlo?
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Cos´è il binge eating disorder?
Il binge eating disorder o disturbo da alimentazione incontrollata è un disturbo del comportamento alimentare caratterizzato da ripetuti episodi di abbuffata in cui la persona assume grosse quantità di cibo in poco tempo.
Nelle condizioni lievi, le abbuffate possono verificarsi 1-3 volte a settimana. Nei casi più gravi, però, è possibile che il paziente si abbuffi di cibo anche più di una volta al giorno.
In genere, dopo l’abbuffata la persona che soffre di binge eating disorder non adotta condotte compensatorie. Per esempio non si provoca il vomito. Né mette in atto altre pratiche finalizzate a ridurre l’assorbimento calorico (per esempio, l’assunzione di lassativi). Il fatto che dopo la massiccia assunzione non vengano messi in atto comportamenti per evitare l’assunzione di calorie, differenzia il binge eating disorder da un altro disturbo alimentare, la bulimia nervosa.
Chi soffre di binge eating disorder?
Il disturbo da alimentazione incontrollata è noto agli psicologi sin dagli anni Sessanta. Ma solo recentemente è stato inserito in uno dei più accreditati manuali per la diagnosi psichiatrica, il DSM 5. Il binge eating è un disturbo che colpisce il 2-3% della popolazione con più di 18 anni. L´incidenza nelle persone obese è del 5%. Si tratta di una problematica che esordisce in genere prima dei 20 anni. E che coinvolgen senza grosse differenze uomini e donne. Se i pazienti maschi colpiti da anoressia sono solo il 5-10% e quelli interessati da bulimia il 10-15%, nel caso del comportamento alimentare non controllato si arriva a percentuali del 40%..
Cosa si intende per abbuffata?
Con il termine abbuffata si intende l’assunzione di una grande quantità di alimenti che avviene in un breveintervallo di tempo (fino a due ore). Nel corso delle abbuffate, la persona sente di perdere il controllo sul proprio comportamento alimentare. È come se non riuscisse a fermarsi dall’ingerire cibo. Durante le abbuffate, si possono assumere grandi quantità di alimenti anche in assenza di fame. E a continuare a mangiare nonostante si avverta una sgradevole sensazione di pienezza. Spesso, nel corso di questi episodi, si può mangiare più rapidamente del solito. Per concludere, infine, l’abbuffata è generalmente solitaria poiché la persona prova vergogna a mangiare in pubblico quantità di cibo non ritenute normali.
Perché ci si abbuffa?
Numerosi studi e l’esperienza clinica hanno dimostrato che le abbuffate sono innescate dalla necessità di gestire emozioni disturbanti che la persona non riesce a regolare in altro modo. In altre parole, cioè, le abbuffate sono un modo per controllare vissuti negativi che possono causare disagio. Depressione, ansia e noia sono solo alcune delle emozioni che la persona può pensare di poter sedare con il cibo, che diventa così un anestetico e un regolatore esterno di stati emotivi interni.
Qual è il principale problema di chi soffre di binge eating disorder?
Il principale problema di chi soffre di binge eating disorder consiste nella difficoltà di trovare modi alternativi per gestire le proprie emozioni negative. Il cibo, insomma, viene assunto per trovare una soddisfazione temporanea e colmare una sensazione di vuoto interiore a cui può essere difficile dare un nome.
L’assunzione di cibo, però, è ovviamente una finta soluzione. Dopo aver abbassato la tensione e fornito un sollievo temporaneo, come già detto, l’abbuffata lascia spazio ad emozioni ancora meno piacevoli di quelle che l’hanno innescata. La vergogna per l’assunzione massiccia di cibo, la colpa e il disgusto per sé stessi possono finire per sollecitare dolorosi vissuti depressivi. Il rischio è che si inneschi un circolo vizioso in cui una finta soluzione contribuisce a mantenere nel tempo un problema che, spesso, si associa anche a numerose conseguenze psicofisiche.
Quali trattamenti esistono per il binge eating disorder?
Rispetto ad altri disturbi alimentari, il binge eating disorder richiede un tempo di diagnosi più lungo perché spesso non è riconosciuto prontamente. Frequentemente la persona non individua il comportamento di abbuffata come un sintomo e, per questo, non lo riferisce al proprio medico o al proprio psicologo. I professionisti sanitari, del resto, possono sottovalutare le implicazioni psicologiche del comportamento da alimentazione incontrollata, suggerendo al paziente di seguire una dieta o cambiare stile di vita. Si tratta di indicazioni di trattamento sicuramente importanti e, in effetti, la presa in carico del paziente che soffre di binge eating disorder è multidisciplinare.
Il lvoro in équipe
Il nutrizionista sioccupa di elaborare un piano alimentare equilibrato. Il medico internista segue le possibili complicanze dei comportamenti alimentari disfunzionali, soprattutto laddove siano rilevabili disordini metabolici non raramente collegati a problemi di obesità.
Una parte cruciale del trattamento, accanto a quella finalizzata all’acquisizione di corretti stili alimentari e di vita, però, è rappresentata dalla psicoterapia.
È ormai chiaro che il comportamento di abbuffata è sollecitato da emozioni negative sperimentate come incontrollabili altrimenti. Il trattamento psicoterapico rende possibile individuare le situazioni e le emozioni che scatenano il comportamento alimentare disfunzionale. E aiuta la persona a trovare migliori strategie di gestione dei propri vissuti ed emozioni.
Una terza area di trattamento, infine, riguarda la consapevolezza del corpo che può essere migliorata attraverso tecniche ed esercizi particolari. Si tratta di strategie di cura volte ad aumentare la consapevolezza di quali sono i correlati corporei delle nostre emozioni, migliorando anche la capacità di lettura dei segnali che il nostro corpo ci invia quando ci sentiamo tristi, ansiosi o tesi.
Se pensi di soffrire di binge eating disorder non esitare a contattarmi per un primo colloquio di valutazione che puoi svolgere in presenza (a Milano, Monza e Cernusco sul Naviglio) oppure online.
Riferimenti bibliografici
American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th ed.). Arlington, VA: American Psychiatric Publishing.
Wilson, G. T., Wilfley, D. E., Agras, W. S., & Bryson, S. W. (2010). Psychological treatments of binge eating disorder. Archives of general psychiatry, 67(1), 94-101.
Vite sottili: cause, sintomi e trattamenti dell’anoressia
L’anoressia è probabilmente il più noto tra i disturbi alimentari. Come si manifesta e come trattarla?
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Che cosa si intende per anoressia?
L’anoressia nervosa è uno dei disturbi alimentari più conosciuti. Si caratterizza per la paura profonda di ingrassare, timore che suscita l’adozione di comportamenti finalizzati alla perdita di peso. Le persone anoressiche, per esempio, possono ridurre l’apporto calorico limitando l’ingestione di cibo o provocandosi il vomito dopo aver consumato i pasti. In aggiunta, in alcuni casi, possono ulteriormente ridurre l’assunzione di calorie attraverso l’attività sportiva intensa. In altri casi, ancora, possono assumere lassativi, diuretici o farmaci anoressizzanti, come, per esempio le amfetamine, che hanno come effetto quello di ridurre il senso della fame.
È vero che chi soffre di anoressia non ha mai fame?
In effetti, diversamente da quanto lascerebbe immaginare l’etimologia del termine “anoressia” (dal greco an- “senza” e oréksis “appetito”) difficilmente le persone che soffrono di questo disturbo esperiscono una diminuzione dell’appetito. Lo stimolo della fame, anzi, può aumentare per il protrarsi della deprivazione di cibo. Ma è proprio il costante sentirsi affamati che fornisce alla persona con anoressia la cornice di riferimento entro la quale riesce a sentirsi, forte, potente e in controllo, in una battaglia costante contro i morsi della fame e di un corpo emaciato e smunto.
L’aggettivo “nervosa” fa riferimento alla non esistenza di cause organiche a giustificare la riduzione del peso corporeo, che è quindi spiegabile con la presenza di un disturbo mentale.
Quando è possibile diagnosticare l’anoressia?
Il DSM 5 (APA, 2013) inserisce l’anoressia all’interno della categoria diagnostica dei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione accanto a problematiche quali la bulimia e il disturbo da binge-eating. Ad essi, inoltre, si aggiungono anche alcuni disturbi alimentari caratteristici dell’infanzia quali la pica, il disturbo da ruminazione e il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo.
Il manuale diagnostico dell’American Psychiatric Association stabilisce che si può effettuare una diagnosi di anoressia nervosa quando l’apporto calorico non rispetta le necessità ritenute normali o appropriate. E quando il peso è decisamente basso rispetto all´età, sesso e condizioni di salute della persona.
Un secondo criterio, poi, è relativo a diversi aspetti caratteristici di questo disturbo. Tra questi la paura di ingrassare e la messa in atto di comportamenti che interferiscono con il raggiungimento di un peso adeguato.
Infine, un terzo criterio fa riferimento alle alterazioni circa il modo in cui la persona vive l’aspetto del proprio corpo, l’eccessivo impatto del peso o dell’aspetto sull’autostima, il rifiuto di ammettere che la propria condizione di sottopeso possa essere grave.
Anoressia o anoressie?
Possiamo individuare diversi sottotipi di anoressia. Nel sottotipo cosiddetto “restricter” la persona controlla il peso attraverso la dieta, il digiuno o l’esercizio fisico intenso.
Quando invece la persona ingerisce grosse quantità di cibo, si causa il vomito, usa lassativi o diuretici, invece, si parla di un sottotipo differente, quello con crisi bulimiche e/o condotte di eliminazione.
Gravità dell´anoressia
Accanto a queste specificazioni, un altro indicatore importante nella diagnosi di anoressia fa riferimento all’indice di massa corporea. Il suo calcolo, infatti, consente di individuare 4 diversi livelli di gravità del disturbo anoressico: lieve, moderato, grave ed estremo.
All’origine dell’anoressia: quali cause?
Le cause dell’anoressia non sono ancora del tutto chiare. Attualmente, però, sembra essere assodata la possibilità di individuare fattori di rischio che possono predisporre allo sviluppo dell’anoressia nervosa. Si fa riferimento all’interazione di cause genetiche, psicologiche, contestuali e relazionali.
Se fino a qualche tempo fa si puntava il dito contro ideali di magrezza-bellezza propagati dai media come una delle cause dell´anoressia, questa ipotesi sembra cadere di fronte all´evidenza che l´anoressia esisteva già da prima dell´avvento dei media (si pensi alle Sante anoressiche!). Tuttavia l’interiorizzazione di un simile ideale di bellezza femminile e il bisogno di piacere a tutti i costi, caposaldo della nostra società dell’immagine, può sicuramente favorire atteggiamenti di insoddisfazione per il proprio corpo, aumentando il rischio di sviluppare un vero e proprio disturbo psichiatrico.
Anorressia e stili di personalità
È chiaro che le dinamiche appena descritte contribuiscono a spiegare solo alcuni aspetti del problema. Per esempio, numerosi studi hanno dimostrato che un fattore di rischio per lo sviluppo dell’anoressia è rappresentato da alcuni tratti di personalità. Tra questi, il perfezionismo, la rigidità del pensiero, la tendenza a darsi degli standard sempre più elevati e l’incapacità di riconoscere il proprio valore.
Non sembra essere rilevante o addirittura presente la presenza di un disturbo dell’immagine corporea. Cioè di una problematica relativa alla percezione distorta del proprio aspetto e delle proprie forme. Son diversi oramai gli studi scientifici che sotengono come invece le persone con anoressia siano molto accurate nel riconoscere la propria forma come eccessivamente magra (si vedano i lavori di Jannsen).
Le persone con anoressia possono tormentarsi per l’incapacità a riconoscere i propri pregi. Forte è invece la tendenza a riscontrare solo i propri difetti. Per concludere, infine, sembra importante ricordare che l’anoressia è un problema che emerge all’interno di schemi familiari disfunzionali (Onnis, 2004). Ecco perché le dinamiche con la famiglia vengono spesso indagate in psicoterapia.
Quali trattamenti per l’anoressia?
L’anoressia è uno dei disturbi psichiatrici con i più alti tassi di mortalità, soprattutto tra gli adolescenti. Proprio per questo motivo diventa importante riconoscere i sintomi dell’anoressia sin dal suo esordio e rivolgersi a dei professionisti specializzati nella sua cura. L’anoressia, infatti, è una malattia potenzialmente letale. La sua gravità suggerisce l’utilità di non trascurare neppure i sintomi lievi.
Laddove il disturbo si manifestia un livello di gravità importante o estremo, potrebbe essere necessario rivolgersi a trattamenti basati sul ricovero ospedaliero o presso strutture residenziali. In condizioni meno gravi o agli esordi, invece, simili strategie potrebbero non essere necessarie. La persona potrebbe invece beneficiare di una presa in carico multidisciplinare con la collaborazione di professionisti di formazione diversa: psicoterapeuta, nutrizionista, medico internista.
Riferimenti bibliografici
American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th ed.). Arlington, VA: American Psychiatric Publishing.
Aquilar F., Del Castello E. & Esposito R. (2005). Psicoterapia dell’anoressia e della bulimia. Milano: FrancoAngeli.
Onnis L. (2004). Il tempo sospeso. Anoressia e bulimia tra individuo, famiglia e società. Milano: FrancoAngeli.
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