Le teorie psicologiche classiche considerano l´attacco di panico come una risposta di paura intensa, esagerata, incontrollata e inappropriata. Secondo queste teorie la paura scaturirebbe dall´attivazione dell´amigdala e di altre aree cerebrali che regolano l´emozione della paura. Di conseguenza, gli approcci psicoterapeutici che prendono le mosse da questa teoria (specialmente la psicoterapia cognitivo comportamentale) hanno per obiettivo la riduzione dello stato di paura del paziente. Esercizi di desensibilizzazione, di esposizione, la disputa dei pensieri disfunzionali ecc., sono tra i principali compiti e tecniche che si offrono al paziente nel tentativo di ridurre la sintomatologia. Alcune teorie fenomenologichguardano invece a certe forme di attacco di panico come attacco di solitudine.
La brutta notizia
La brutta notizia, però, è che spesso tali interventi non danno risultati duraturi. Inoltre, sappiamo anche che i farmaci come le benzodiazepine hanno uno scarso effetto sull´incidenza del panico. Invece, gli SSRI (una classe di antidepressivi) sono considerati i farmaci di elezione per combattere il panico.
Una nuova teoria sul panico
La teoria fenomenologica offre una nuova visione sul concetto di panico. Secondo questa teoria, il panico non sarebbe tanto (o soltanto) un attacco di paura intensa, esagerata, incontrollata e inappropriata. Invece, il panico è l´esperienza che si fa quando ci troviamo esposti a situazioni che percepiamo come potenzialmente incontrollabili e contemporaneamente sentiamo di non avere nessuno su cui poter contare. Attacco di panico o attacco di solitudine, quindi?
A corroborare questa visione del panico concorrono alcuni dati provenienti dalla ricerca. Innanzitutto, uno dei sintomi del panico è la fame d´aria. Ebbene, la fame d´aria occorre raramente in situazioni di paura acuta, generata da un evento esterno. Inoltre, a differenza della paura, durante un attacco di panico non assistiamo all´attivazione del sistema HPA. Il sistema HPA regola la risposta allo stress. Questo sistema sembra essere addirittura inibito dal panico. La tachicardia e le altre forme di attivazione fisiologica durante un attacco di panico sono invece prodotte da una soppressione vagale (parasimpatica) piuttosto che da un´attivazione simpatica.
Inoltre, durante un attacco di panico, l´esperienza principale è quella di stare per morire o impazzire. La paura arriverebbe soltanto in un secondo momento. E riguarda, in genere, la preoccupazione che un attacco di panico possa ripetersi. Oppure che si abbia qualche malattia. O che si possa impazzire. Secondo questa visione, la paura sarebbe quindi secondaria e successiva all´attacco di panico (sicuramente almeno al primo attacco di panico, aggiungerei io). Infatti, è solo dopo il primo attacco di panico che la persona di solito inizia a vivere in uno stato di forte angoscia, ansia anticipatoria e sviluppa una paura dei sintomi del panico!
Panico e difficoltà a riconoscere le emozioni
Dopo il primo attacco di panico la persona di solito inizia un ossessiva quanto eccessiva autoosservazione. Perché? Per intercettare e controllare ogni minima variazione corporea che possa somigliare all´esperienza di panico. Ma così facendo, la persona non presta attenzione agli elementi contestuali nei quali i sintomi possono emergere. Non di rado chi soffre di panico soffra anche di alessitimia.
L´alessitimia (dal greco a- «mancanza», lexis «parola» e thymos «emozione» dunque: «mancanza di parole per [esprimere] emozioni») è un costrutto psicologico noto anche come analfabetismo emotivo che descrive una condizione di ridotta consapevolezza emotiva. L´alessitimia comporta l’incapacità sia di riconoscere sia di descrivere verbalmente i propri stati emotivi e quelli altrui. Le persone che soffrono di panico non sono né inclini né capaci di chiedere aiuto. Sono spesso diffidenti. Non sanno riconoscere ed esprimere le loro necessità affettive.
Non stupisce che il panico si manifesti proprio in situazioni in cui la persona sta attraversando un passaggio importante della sua vita. La laurea, il matrimonio, un trasloco, un cambio lavorativo, difficoltà relazionali o economiche, la morte di un caro, la fine (ma anche l´inizio!) di una relazione affettiva. Cos´hanno in comune queste situazioni? La persona si sente maggiormente esposta al mondo, un mondo nuovo, spesso sconosciuto, in cui il contesto relazionale non funge più da sponda per contenere la piena che sta per investire la vita della persona.
In poche parole, ci si sente soli in balìa del mondo. Proprio come un bambino che, al supermercato, improvvisamente si accorge di essersi perso e non trova più i suoi genitori.
Panico e agorafobia
L´agorafobia è forse la situazione che meglio incarna questa sensazione. La paura di trovarsi in spazi aperti diviene metafora del trovarsi esposti a un mondo senza la necessaria mediazione affettiva. Non stupisce, quindi, che chi soffre di panico e di agorafobia, abbia bisogno di una persona che stia con lui/lei proprio per non sentirsi soli in balìa del mondo.
Panico e claustrofobia
Anche il timore di sentirsi costretti in una situazione può elicitare un attacco di panico. Da un lato, come abbiamo visto, chi soffre di panico tende a ricercare la vicinanza e il contatto con l´altro per non sentirsi solo al mondo. Dall´altro, però, l´eccessiva vicinanza dell´altro viene vissuta come asfissiante. Una relazione che sta per sfociare in una convivenza o un matrimonio, le imposizioni sul lavoro, ecc. sono situazioni emblematiche nelle quali chi soffre di panico fatica a trovarsi.
Panico o ansia da separazione?
In virtù di quanto sopra esposto alcune correnti fenomenologiche, di stampo gestaltico, guardano al panico come a un sottotipo di ansia da separazione piuttosto che a una paura generica. Nello specifico, il panico viene considerato un attacco acuto di solitudine.
Panico, depersonalizzazione e derealizzazione
La depersonalizzazione e la derealizzazione sono sintomi dissociativi molto comuni in chi soffre di panico. Come dicevamo, chi soffre di questo disturbo tende a non riconoscere le proprie emozioni (né tantomeno i contesti nei quali queste si generano). Né a riconoscere la causa psicologica e sociale dei sintomi, ai quali invece imputa una causa somatica. Svuotata dalla componente psicologica, l´esperienza di separazione, caratterizzata da angoscia e smarrimento, assume le sembianze della depersonalizzazione e della derealizzazione. Le sembianze di un corpo-organismo che soffre, patisce e non di un corpo-vivo in una situazione “scomoda”. Esperienze traumatiche in età infantile sembrano giocare un ruolo nella manifestazione, in età adulta, di depersonalizzazione e derealizzazione.
Eterogeneità del panico e implicazioni cliniche per una buona psicoterapia
Il panico è un disturbo mentale complesso e multisfaccettato. È caratterizzato da un insieme di sintomi (ben 13!) che si combinano in maniera diversa in diversi individui. Non esiste e non può esistere una psicoterapia valida per ogni caso di panico (così come di nessun altro disturbo mentale). In primis perché comunque si ha davanti a sé, ogni volta, una persona diversa. In secundis perché la combinazione dei 13 sintomi del panico varia sia tra persone diverse che nella stessa persona.
La psicoterapia deve tener conto della specificità di ciascun caso e farsi personalizzata e cucita su misura su ciascun individuo. Attraverso la relazione terapeutica la persona che soffre di panico ricomincia a ritornare gradualmente in sintonia con i propri stati emotivi. E impara a riconoscere i contesti comodi da quelli scomodi. Uno dei miei scopi nella terapia del panico è permettere alla persona di accorgersi delle loro emozioni e necessità che spesso sono state misconosciute per troppo tempo. La relazione terapeutica infine può fungere da contesto che aiuta la persona a sì muoversi verso l’indipendenza e all´autonomia. Senza sentirsi sopraffatto dal mondo e senza dover necessariamente rinunciare all’altro.
Quali sono i sintomi dell’ansia?
/in Psicologia clinica /da Giuseppe IannoneQuali sono i sintomi dell’ansia? L’ansia è come un camaleonte, può assumere forme diverse. I sintomi -fisiologici, cognitivi e comportamentali- non sono sempre facilmente riconoscibili. Vediamoli assieme in questo articolo.
Il termine ansia deriva dal latino “angor“, che significa stringere, soffocare. E in effetti i sintomi dell’ansia rimandano a questi due verbi. E alla limitazione delle possibilità d’azione cui costringe chi ne soffre. L’ansia consiste in un insieme di reazioni, fisiologiche, cognitive e comportamentali, a uno stimolo che riteniamo minaccioso e nei confronti del quale non ci riteniamo capaci di reagire adeguatamente.
A volte gli stimoli minacciosi sono stress mentali. Per esempio, quando percepiamo una minaccia sociale che ci fa anticipare la paura di fare una brutta figura o di fallire. Come nel caso di un esame da superare, un colloquio di lavoro da affrontare o un primo appuntamento amoroso.
Altre volte, invece, a mandarci in uno stato di ansia possono essere stimoli interni. Alterazioni fisiologiche come una tachicardia, dispnea, vertigini, ecc. possono allertarci e, nei casi peggiori, sfociare in un attacco di panico.
Ma vediamo ora assieme quali sono i sintomi dell’ansia.
Sintomi fisiologici dell’ansia
I sintomi fisiologici dell’ansia includono:
Alcuni di questi sintomi preparano il corpo a fronteggiare una minaccia. Per esempio:
Sintomi cognitivi dell’ansia
I sintomi cognitivi dell’ansia, soprattutto dell’ansia panica, includono:
Sintomi comportamentali dell’ansia
Le reazioni comportamentali all’ansia includono:
Ansia e panico nei disturbi mentali
/in Psicologia clinica /da Giuseppe IannoneContrariamente a quanto si possa pensare, l’ansia e gli attacchi di panico non sono sempre un sintomo di un disturbo d’ansia. Ansia e panico panico possono infatti manifestarsi anche in altri disturbi mentali. Vediamo assieme in quali.
L’ansia e il panico nei disturbi del neurosviluppo
L’ansia e gli attacchi di panico possono comparire in alcuni disturbi del neurosviluppo.
L’ansia e il panico nei disturbi psicotici
Ansia e panico nei disturbi psicotici può manifestarsi in 3 situazioni specifiche:
Ansia e panico del disturbo bipolare
Ansia e panico nella depressione
Ansia e panico nel disturbo ossessivo-compulsivo
Ansia e panico nel disturbo post-traumatico da stress
Ansia e panico nell’ipocondria
L’ansia e il panico nei disturbi della nutrizione e dell’alimentazione
L’ansia e il panico nei disturbi del sonno-veglia
L’ansia e il panico nelle disfunzioni sessuali
Nelle disfunzioni sessuali l’ansia è di due tipi:
L’ansia e il panico nei disturbi da sostanze
L’ansia e il panico possono manifestarsi in due condizioni:
L’ansia e il panico nei disturbi neurocognitivi
Ansia, agitazione, disorientamento, confusione e aggressività sono comuni nelle demenze (Alzheimer, frontotemporale, corpi di Lewy, ecc.).
Ansia e panico nei disturbi di personalità
L’ansia e il panico possono manifestarsi in alcuni disturbi di personalità, tra cui:
Diagnosi e trattamento di ansia e panico
Ansia e panico sono trasversali a tantissimi disturbi mentali. Occorre quindi un’accurata fase diagnostica per poter inquadrare i sintomi all’interno di uno specifico disturbo. Una buona diagnosi è infatti necessaria per ricevere un trattamento psicoterapico e/o farmacologico adeguato a ogni situazione specifica.
Panico, ipocondria o ossessione?
/in Psicologia clinica /da Giuseppe IannonePanico, ipocondria o ossessione? Si dice che l’ansia abbia mille maschere. Una maschera è l’agitazione. Un’altra è la preoccupazione. Un’altra ancora è la voglia di tenere tutto sotto controllo. E che dire dell’ansia di essere abbandonati? C’è l’ansia di non saper scegliere e l’ansia di fronte alla morte. Esiste poi l’ansia fobica, quella cioè rivolta verso un oggetto o una situazione specifici. E l’ansia panica, dove il nemico diventa addirittura il proprio corpo. Il minimo comune denominatore di tutte queste forme d’ansia è la limitazione della libertà che l’ansia comporta nella vita di chi ne soffre. E dove non c’è la possibilità di scegliere come vivere la propria vita vengono meno sia il concetto di libertà che di autodeterminazione.
Il primo attacco di panico non si scorda mai…
Il primo attacco di panico è spesso, per chi lo vive, un’esperienza traumatizzante. Alcune persone la raccontano come un’esperienza di quasi-morte. La tachicardia improvvisa, il dolore al petto, la fame d’aria, la sudorazione, i tremori. E la paura di impazzire, di morire o di fare un gesto sconsiderato. Tutti sintomi vissuti come estranei e allarmanti che conducono spesso la persona al più vicino pronto soccorso. In genere l’attacco di panico non dura più di 20-30 minuti. Ma l’esperienza è così drammatica da lasciare la persona nella preoccupazione e nell’angoscia che il panico possa ritornare. E allora si è costretti a riorganizzare la propria vita in vista di questa possibilità. Ci si limita negli spostamenti. Si ha bisogno di qualcuno di fidato con cui affrontare la quotidianità. Si evita di restare da soli. Non si va più a fare la spesa. Non si prendono più i mezzi pubblici. E la lista potrebbe continuare ancora.
Il panico è un’esperienza traumatizzante perché ci sorprende nella sua drammaticità. E produce una modificazione e una discontinuità nella nostra vita. “Da quel primo attacco di panico nulla è stato più come prima“, mi racconta un giovane paziente che seguo in terapia. “Mi sento vulnerabile e indifeso. Alla mercé di un corpo che improvvisamente si è ribellato e che non riesco più a controllare”. “E’ il mio corpo il principale nemico da combattere e tenere costantemente sott’occhio“. Per chi sopravvive al primo attacco di panico (quindi per il 100% dei casi) non è più possibile sentirsi sicuri nel proprio corpo. Ma ci si sente esposti al pericolo che può sopraggiungere, dall’interno, in qualsiasi momento. Mentre per chi soffre di una fobia basta evitare l’oggetto o la situazione temuti (ho paura degli aerei, non prendo gli aerei e sto bene) per chi soffre di panico è impossibile scappare da ciò che si teme!.E a nulla servono le condotte di protezione e di evitamento per fuggire dal panico. Come si suol dire: non puoi fuggire dalla tua ombra!
Panico, ipocondria e mania di controllo
E’ facile scadere nell’ipocondria una volta fatta esperienza di un attacco di panico. Improvvisamente ci si riscopre in un corpo vulnerabile, sensibile e fragile. E del fatto che dipendo dai capricci del mio corpo. Che non posso controllare totalmente. Prendere coscienza dei propri limiti corporei è insopportabile per alcuni individui. E il monitoraggio ansioso del proprio corpo è un tentativo (fallimentare) di riottenere un controllo completo sul corpo che si è improvvisamente imbizzarrito.
La psicoterapia per il panico
La lotta contro il proprio corpo può durare anche una vita intera, se non si interviene con un percorso di cura efficace. Dovrò dipendere dai capricci del mio corpo? Come posso convivere con i miei limiti? Come posso ritrovare la mia libertà? Qual è il mio posto nel mondo? Sono queste alcune delle domande che aiutano la persona a riposizionarsi e a radicarsi nuovamente nell’esistenza. Una buona psicoterapia per la cura dell’ansia deve saper aiutare la persona non solo a guarire dai sintomi dell’ansia ma a fare sì che si riappropri della propria libertà e ritorni a vivere pienamente.
Sono bipolare?
/in Psicologia clinica /da Giuseppe IannoneCosa (NON) è il disturbo bipolare?
Cambiare idea repentinamente e facilmente NON significa soffrire di disturbo bipolare. E il disturbo bipolare NON è un atteggiamento, né un lato del carattere. Spesso si fa confusione tra l’avere continui sbalzi d’umore e soffrire di disturbo bipolare. Il disturbo bipolare è una malattia mentale molto grave e invalidante caratterizzata da veri e propri terremoti emotivi. Le oscillazioni dell’umore sono estreme e si verificano non così spesso come si crede (in media 2-3 all’anno).
Quali sono i principali sintomi del disturbo bipolare?
La mania (o l’ipomania) e la depressione sono le due polarità attorno alle quali si addensano i sintomi del disturbo bipolare.
La mania
Nel disturbo bipolare di tipo 1, la persona sperimenta fasi di mania caratterizzate da un umore espanso e un’euforia esagerata. Tutto appare a portata di mano. Ogni progetto sembra realizzabile. Si tratta di un vissuto che non ha nulla a che vedere col sentirsi allegri o felici. La persona sperimenta un’impennata dei livelli di energia, ha bisogno di pochissime ore di sonno e di cibo. E’ molto più loquace del solito. E’ più litigiosa, irritabile o arrabbiata. L’autostima raggiunge livelli da perfetto narcisista. Aumenta la libido. E aumentano i comportamenti spericolati. La persona può così lanciarsi in investimenti ad alto rischio, certa di un ritorno economico. O in comportamenti sessualmente promiscui. In poche parole, si da alla pazza gioia. Un mio paziente mi raccontò che, in fase di mania, acquistò in una sola mattina tre auto di lusso e cinque moto. La mania dura almeno 7 giorni (l’ipomania ha invece una durata di circa 4 giorni). Questa fase del disturbo è così invalidante da richiedere l’ospedalizzazione.
What goes up, must come down: benvenuta depressione
La depressione può seguire, ma anche precedere, un episodio di mania o di ipomania. In questa fase del disturbo la persona sperimenta un umore triste, si sente disperata, fatica a prendersi cura di sé. Non esce più di casa, non va a lavorare, non studia. Ciò che in mania appare come fattibile, nella depressione appare distante e irraggiungibile. Si fa fatica persino a tirarsi giù dal letto. La durata della fase depressiva è di solito più lunga di quella maniacale. La persona può versare in uno stato depressivo anche per mesi. Lo switch tra mania e depressione può essere rapido e immediato. Ma può anche accadere che la persona sperimenti un periodo di umore normale tra un episodio di mania e uno di depressione.
A volte, infine, mania e depressione possono manifestarsi contemporaneamente (si parla in questi casi di stati misti).
Le cause del disturbo bipolare
L’eziopatogenesi del disturbo bipolare è multifattoriale e complessa. E comprende cause genetiche, neurobiologiche e ambientali.
Bipolari si nasce? Il ruolo della genetica
Esiste una predisposizione genetica per il disturbo bipolare. I geni principali coinvolti nel disturbo sono il CACNA1 e l’ANK3. E i tassi di ereditarietà sono davvero alti (intorno all’80-90%). Si calcola che il rischio di soffrire di disturbo bipolare sia 10 volte maggiore in chi ha un genitore con disturbo bipolare. Ma la predisposizione non è una condanna. Non tutte le persone geneticamente predisposte a sviluppare un disturbo bipolare si ammaleranno.
La neurobiologia del disturbo bipolare
Squilibri a livello di alcuni neurotrasmettitori che regolano l’ umore (serotonina, dopamina e norepinefrina) sono correlati al disturbo bipolare. Inoltre, la ricerca suggerisce che il volume della materia grigia nei lobi frontale e temporale (due aree importanti nella regolazione delle emozioni) è minore in persone con disturbo bipolare. Così come inferiore è il volume dell’ippocampo (struttura che regola l’inibizione comportamentale). Trattandosi di correlazioni è difficile dire se le alterazioni precedono o seguono la malattia.
Che ruolo hanno le influenze ambientali nel disturbo bipolare?
Stress, abuso di sostanze e stile di vita (per esempio qualità e quantità del sonno) sono tra i principali fattori ambientali che, sulla base di una vulnerabilità genetica, possono slatentizzare un disturbo bipolare.
Esiste una cura per il disturbo bipolare?
Tutte le linee guida delle società scientifiche (sia mediche che psicologiche) indicano che i 3 pilastri della cura del disturbo bipolare sono:
La cura si declina sia come profilattica che di mantenimento. Spesso psicoterapia, psicoeducazione e farmacoterapia sono utilizzate in sinergia per attaccare la patologia da più fronti.
Quali farmaci si usano nella cura del disturbo bipolare?
I farmaci maggiormente efficaci nella cura del disturbo bipolare sono:
Che ruolo hanno la psicoterapia e la psicoeducazione?
La psicoeducazione aiuta sia i pazienti che i familiari a riconoscere i prodromi del disturbo, a prevenire le ricadute e a fornire importanti indicazioni e informazioni sul disturbo bipolare. Famoso è il protocollo Colom-Vieta.
La psicoterapia è un valido aiuto in fase di eutimia (umore normale) con un paziente compensato farmacologicamente. La psicoterapia aiuta il paziente ad aderire ai trattamenti e interviene sulle dinamiche sia personologiche che relazionali dell’individuo. Occorre infatti sempre tenere in mente che dietro qualsivoglia disturbo mentale c’è sempre una persona.
Ho paura di prendere l’aereo
/in Psicologia clinica /da Giuseppe Iannone“Ho paura di prendere l’aereo. Ma anche il treno, la metropolitana, l’autobus, persino l’automobile. Non mi sento a mio agio se sono al cinema, a teatro, in una sala, in ufficio, in aula, al ristorante, in ascensore… Cerco sempre con lo sguardo la via di fuga più vicina a me. Così nel caso in cui dovessi sentirmi male avrei un’uscita di sicurezza a me prossima”.
Inizia così il racconto di un giovane paziente che sto seguendo in psicoterapia. Tecnicamente soffre di claustrofobia: un disturbo d’ansia tanto comune quanto invalidante. Secondo il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5), esistono molte categorie di disturbi d’ansia. Per esempio il disturbo d’ansia da separazione, il disturbo d’ansia sociale, il disturbo di panico, il disturbo d’ansia generalizzato, il mutismo selettivo e le fobie specifiche.
La claustrofobia è una delle tante fobie. Una fobia è una paura che causa una compromissione significativa della capacità di una persona di vivere una vita normale. Un esempio di compromissione della vita è evitare l’oggetto o lo scenario specifico che si teme.
Quante fobie?
Le fobie specifiche possono essere suddivise in diversi sottotipi, a seconda dell’oggetto o della situazione temuti:
Claustrofobia
Le fobie specifiche sono una paura estrema di determinate attività, persone, oggetti o situazioni. La claustrofobia è un tipo di fobia specifica, in cui si ha paura degli spazi chiusi. Esempi di spazi chiusi sono i mezzi di trasporto, le macchine per la risonanza magnetica, gli ascensori, ecc.
Chi ne soffre generalmente evita o sopporta a fatica l’oggetto o la situazione particolari che scatenano la loro paura. La paura può essere espressa come pericolo di danno, disgusto o esperienza dei sintomi fisici non piacevoli quando ci si trova in presenza della situazione o dell’oggetto che genera paura.
Cosa succede nel cervello?
Cosa succede nel cervello delle persone che soffrono di claustrofobia e mostrano quindi una grande paura e ansia quando si trovano in spazi chiusi? Succede che le regioni frontali del cervello non sono più in grado di sottoregolare l’iperattivazione dell’amigdala. Studi metaanalitici di maging funzionale del cervello in fobie specifiche hanno indicato che le regioni del cervello attivate dagli stimoli fobici sono il globo pallido, l’amigdala e l’insula sinistra.
Quante persone soffrono di claustrofobia?
La claustrofobia ha una prevalenza nel corso della vita e su 12 mesi di circa il 10%. Questo significa che una persona su dieci può ritrovarsi a soffrire di claustrofobia!
Ne soffro anche io?
Prima di tutto è necessario stabilire se la paura rappresenti una fobia, una paura normale, una condizione medica generale o un disturbo d’ansia. In fase diagnostica faccio sempre domande su come il disturbo sia nato, valuto se e come la paura influenzi la vita quotidiana e le dinamiche familiari.
Successivamente esploro in maniera approfondita i vari sintomi, sia fisici ed emotivi. Durante le sedute di psicoterapia valuto attentamente se la persona riporta sintomi fisici come difficoltà respiratorie, tremori, sudorazione, tachicardia, secchezza delle fauci e dolore toracico. Valuto sempre anche i sintomi emotivi,come. sensazione di ansia o paura opprimenti, paura di perdere il controllo, comportamenti di evitamento delle situazioni temute.
E se non fosse claustrofobia?
Occorre molta cautela in fase diagnostica. Non sempre i sintomi riportati sono garanzia che la persona soffra di claustrofobia. Esistono infatti condizioni e disturbi mentali che possono essere facilmente scambiati per claustrofobia. Tra questi, il disturbo da stress post-traumatico, la fobia sociale, il disturbo bipolare, il disturbo d’ansia generalizzato, il disturbo d’ansia da separazione, un disturbo depressivo, e, non ultimo, la dipendenza da alcool.
Altro fattore da considerare (e questa è una brutta notizia), C’è una probabilità dell’83% di scoprire più fobie specifiche una volta diagnosticata una particolare fobia come la claustrofobia.
Si guarisce dalla claustrofobia?
Guarire dalla claustrofobia si può. Un percorso di psicoterapia specifico per i disturbi d’ansia dà in genere buoni risultati.
Esistono diverse tecniche per la cura della claustrofobia. Tecniche di esposizione graduale, di immaginazione guidata, di rilassamento e respirazione. Ma soprattutto occorre risalire al primus movens, alla causa del disturbo per poter intervenire in maniera efficace. Non è raro che la claustrofobia sia metafora di una costrizione esistenziale, come il ritrovarsi in una situazione senza apparente via di uscita (relazioni o un lavoro non soddisfacenti, ecc.). La paura di non poter scappare, quando il contesto diventa troppo opprimente e non consente una fuga facile, fa appello al nostro istinto di sopravvivenza.
Come nel caso dell’agorafobia, una distanza eccessiva da luoghi o persone ritenuti sicuri può comportare a sentimenti di abbandono, con i pericoli conseguenti, così una vicinanza eccessiva può portare alla paura della perdita di sé stessi, della con-fusione con l’altro.
Infine, a seconda della situazione, e tenendo conto delle preferenze del paziente, una cura farmacologica con SSRI e/o benzodiazepine può essere abbinata alla psicoterapia per la cura della claustrofobia.
Come vincere l’ansia da prestazione?
/in Psicologia clinica /da Giuseppe IannoneDi fronte alla prospettiva di essere sotto i riflettori spesso provano apprensione. Ma perché per alcuni, l’ansia da prestazione influenza minimamente le prestazioni, o addirittura le migliora? E perché, invece, per altri, l’ansia da prestazione può causare un disagio significativo e indebolire il loro stato emotivo e la loro capacità di eseguire un compito?
Quali sono i sintomi dell’ansia da prestazione?
I sintomi e le conseguenze dell’ansia da prestazione sono spesso rilevanti sia per la persona che ne soffre che per il pubblico. I sintomi più comuni associati all’ansia da prestazione includono:
Nei casi più gravi l’ansia da prestazione può indurre veri e propri attacchi di panico.
Le 4 fasi dell’ansia da prestazione
Fase 1. La situazione in cui ci si trova. Ogni individuo può avere percezioni radicalmente diverse della stessa situazione. Questo dipende dal significato che ciascuna persona attribuisce all’evento.
Fase 2. La capacità personale. Se gli individui credono che le loro capacità e abilità non siano all’altezza di ciò che la situazione richiede, ciò può far sì che si sentano minacciati.
Fase 3. La terza fase del processo è la risposta fisica e psicologica dell’individuo quando percepisce la situazione. Il livello di ansia di tratto di un individuo influenza il modo in cui la situazione viene percepita. L’ansia di tratto predispone un individuo a vedere una situazione come più o meno minacciosa. Inoltre, le persone più sensibili alle proprie variazioni corporee (battito cardiaco, temperatura corporea, ecc.) tendono a prestare particolare attenzione ai cambiamenti dell’attivazione emotiva in atto. Chi vive sentimenti costanti e intensi di ansia e paura sviluppa una maggiore capacità di sentire i segnali che provengono dal proprio corpo.
Fase 4. Il modo in cui un individuo si comporta sotto gli effetti dell’ansia costituisce il quarto stadio del processo. Ci sono persone che sono capaci di agire molto bene anche se provano ansia, mentre altri si paralizzano se si trovano in uno stato di ansia.
Ansia da prestazione vs fobia sociale
Si fa spesso confusione tra ansia da prestazione e fobia sociale.
L’ansia da prestazione è spesso collegata alla fobia sociale poiché entrambi condividono una preoccupazione per la valutazione degli altri. Tuttavia, gli individui con fobia sociale sopravvalutano la misura in cui vengono guardati e giudicati. Invece l’ansia da prestazione sorge più spesso in presenza di un pubblico reale che probabilmente giudicherà la qualità di una performance. Inoltre, l’ansia da prestazione si verifica esclusivamente nel contesto dell’esecuzione di un’abilità o una performance motoria e cognitiva. Ma chi soffre di ansia da prestazione non ha problemi nell’interazione sociale. Viceversa, chi soffre di fobia sociale teme l’interazione con le altre persone tout cour.
Come superare l’ansia da prestazione?
Alcuni diranno. Le parole d’ordine sono: competenza e preparazione. Non c’è ansia da prestazione che tenga se ci sentiamo preparati ad affrontare la situazione che ci si pone davanti. Faccio un esempio. I livelli di ansia da prestazione saranno verosimilmente alle stelle per chi si accinge a dover superare un esame universitario o una presentazione al lavoro se arriviamo all’appuntamento impreparati o poco preparati.
Ma siamo sicuri che basti essere preparati e competenti e preparati per superare l’ansia da prestazione? La risposta è no! Credo sia capitato a molti di non aver alzato la mano per rispondere a una domanda della quale si era certi di conoscere la risposta perché l’ansia ci ha bloccato. Per paura di arrossire. O Per paura di essere al centro dell’attenzione.
E allora, come superare l’ansia da prestazione Attraverso un percorso di psicoterapia! Essere stati esposti a sensazioni negative causate dall’interazione con altre persone può far sì che la persona sviluppi nel tempo ansia da prestazione e addirittura fobia sociale. Ciò che la persona vuole evitare, in questi casi, è la possibilità di avvertire una serie di segnali corporei che reputa imbarazzanti (sudare, arrossire, balbettare, tremare, ecc.).
Ansia da prestazione, fobia sociale da paura e fobia sociale ansiosa
Occorre infine fare la seguente distinzione. Esistono due tipologie di fobia sociale. La prima è la fobia sociale da paura. E la seconda è la fobia sociale ansiosa.
Chi soffre di fobia sociale da paura teme di mettersi in gioco nelle situazioni sociali e prova ansia da prestazione per paura di essere giudicato per un’eccessiva sudorazione o perché arrossiscono, eccetera. Invece, in chi soffre di fobia sociale ansiosa l’ansia da prestazione dipende maggiormente dalla paura del giudizio altrui circa le loro performance cognitive o comportamentali.
Un buon intervento psicoterapico dovrà necessariamente tener conto di queste differenze, sia in fase diagnostica che di intervento.
10 domande e risposte sul panico
/in Psicologia clinica /da Giuseppe Iannone1. Attacchi di panico e disturbo di panico sono la stessa cosa?
No. L’attacco di panico consiste in un’improvvisa ondata di intensa paura o disagio che raggiunge un picco in pochi minuti. L’attacco di panico si manifesta con almeno 4 tra i seguenti sintomi: palpitazioni, battito cardiaco accelerato, sudorazione, tremori o scosse, sensazione di mancanza di respiro o soffocamento, , dolore o fastidio al petto, nausea o dolore addominale, vertigini, instabilità, stordimento o svenimento, brividi o sensazioni di calore, parestesie (sensazioni di intorpidimento o formicolio), derealizzazione (sensazioni di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi), paura di perdere il controllo o “impazzire” e paura di morire.
Il disturbo di panico può essere diagnosticato se si verificano attacchi di panico ricorrenti. Gli attacchi sono seguiti da un mese o più di preoccupazione persistente di avere altri attacchi di panico. Inoltre si assiste a cambiamenti nel comportamento dell’individuo per evitare situazioni che potrebbero elicitare un attacco di panico. Tra questi l’evitamento.
2. Gli attacchi di panico possono manifestarsi in diversi disturbi mentali?
Sì. Oltre che nel disturbo di panico, gli attacchi di panico possono manifestarsi nei disturbi dell’umore, altri disturbi d’ansia, disturbi psicotici, disturbi da uso di sostanze, ecc.
3. Il disturbo di panico è un disturbo mentale comune?
Sì. Si stima, infatti che ne soffra il 2-3% della popolazione generale adolescente e adulta.
4. Cosa causa il panico?
Il nevroticismo (cioè la predisposizione a esperire emozioni negative) e la sensibilità all’ansia (cioè la convinzione che l’ansia possa essere nociva) sono i due i principali fattori di rischio temperamentali.
Le esperienze di abuso sessuale e fisico in età infantile, il fumo di sigaretta e la presenza di eventi stressanti nei mesi che precedono l’insorgenza del disturbo di panico sono tra i principali fattori ambientali correlati al disturbo di panico.
L’ereditarietà sembra giocare un ruolo nell’insorgenza del disturbo di panico. Infatti, figli di genitori con disturbi d’ansia, disturbi depressivi e disturbi bipolari hanno un aumentato rischio di soffrire di disturbo di panico.
5. Soffrire di panico aumenta il rischio di suicidio?
Sì. Gli attacchi di panico e una diagnosi di disturbo di panico sono associati a un maggiore tasso di tentativi di suicidio e di ideazione suicidaria.
6. Quali sono le conseguenze del disturbo di panico?
La disabilità sociale, lavorativa e fisica. I costi economici. Il più alto numero di visite mediche. L’assenteismo dal posto di lavoro o da scuola, che possono portare alla disoccupazione o all’abbandono scolastico. Una peggiore qualità della vita.
7. Gli interventi psicoterapici e farmacologici funzionano bene?
Sì. La terapia farmacologica e la psicoterapia funzionano in circa l’80% dei pazienti, soprattutto se il trattamento è precoce. Le ricadute sono comuni se persistono fattori scatenanti come lo stress, l’alcol, il fumo, i problemi finanziari, il divorzio, una malattia cronica, un’elevata sensibilità interpersonale, essere single, una bassa classe sociale e vivere da soli.
8. Quali patologie non devono essere confuse con il disturbo di panico?
Angina, Asma, Insufficienza cardiaca, Prolasso della valvola mitrale. Embolia polmonare, Disturbo da uso di sostanze, e altri disturbi mentali associati agli attacchi di panico devono essere esclusi prima di porre diagnosi di disturbo di panico.
9. Quanto dura un percorso di psicoterapia per il panico?
La durata può variare da individuo a individuo. Ma in genere sono sufficienti poche sedute di psicoterapia per apprezzare i primi, significativi, miglioramenti.
10. Come aiutare una persona che soffre di panico?
Aiutare la persona che soffre di panico a intraprendere un percorso di psicoterapia è la forma migliore di assistenza che si possa immaginare. A nulla servono invece le rassicurazioni o frasi tipo “E’ tutto nella tua testa”. I sintomi del panico sono reali e drammatici. E non vanno sottovalutati.
Il trattamento dei disturbi d’ansia
/in Psicologia clinica /da Giuseppe IannoneI disturbi d’ansia sono i disturbi psichiatrici più diffusi. Con una prevalenza a 12 mesi del 10%, le fobie specifiche sono i disturbi d’ansia più comuni, anche se le persone che soffrono di fobie raramente cercano un trattamento. Il disturbo di panico con o senza agorafobia (PDA) è il secondo tipo più comune con una prevalenza del 6%, seguito dal disturbo d’ansia sociale, chiamato anche fobia sociale (3%) e dal disturbo d’ansia generalizzato (2%).
L’età di esordio dei disturbi d’ansia varia tra i disturbi. Il disturbo d’ansia da separazione e la fobia specifica iniziano durante l’infanzia, con un’età media di esordio di 7 anni, seguiti dal disturbo d’ansia sociale (13 anni), dall’agorafobia senza attacchi di panico (20 anni) e dal disturbo di panico (24 anni). Il disturbo d’ansia generalizzato è quello che in genere compare in età più tarda.
I disturbi d’ansia spesso si verificano insieme ad altri disturbi d’ansia, ma anche alla depressione maggiore, ai disturbi da sintomi somatici, ai disturbi della personalità e ai disturbi da abuso di sostanze.
Se non trattati, i disturbi d’ansia tendono ad avere un decorso cronico. I disturbi d’ansia sono trattati generalmente in regime ambulatoriale, pubblico o privato, senza la necessità di un ricovero ospedaliero. E’ stato stimato che solo una persona con disturbi d’ansia su cinque chiede aiuto a un professionista della salute mentale.
In cosa consiste il trattamento dei disturbi d’ansia?
La terapia dei disturbi d’ansia consiste di diversi interventi. La psicoeducazione, (che, in genere, informa sulla diagnosi, sulla possibile eziologia e sui meccanismi d’azione degli approcci terapeutici disponibili), la psicoterapia e la farmacoterapia. E’ bene che gli interventi siano scelti dopo un’attenta considerazione dei fattori individuali, ad esempio, le preferenze del paziente, l’anamnesi del paziente con precedenti tentativi di trattamento, la gravità della malattia, la comorbidità come disturbi della personalità, eventuali tendenze suicidarie, i tempi di attesa per gli appuntamenti di psicoterapia, i costi e altri fattori.
Farmacoterapia per i disturbi d’ansia
I principali farmaci utilizzati nel trattamento dei disturbi di ansia sono gli SSRI e gli SNRI. I più comuni SSRI utilizzati nel trattamento dei disturbi d’ ansia sono l’escitalopram, la paroxetina, la fluoxetina e la fluvoxamina. Gli SNRI più utilizzati sono la venlafaxina e la duloxetina. SSRI e SNRI sono ben tollerati, non comportano particolari effetti collaterali e possono essere usati anche per lunghi periodi (mesi, anni).
Le benzodiazepine (come Tavor, Xanax, Lexotan, Valium, Ansiolin, Control, En, Rivotril, Lorans, Diazepam, Alprazolam, Lorazepam) vanno utilizzati con cautela e per brevi periodi di tempo (più o meno 8 settimane) a causa del rischio di dipendenza che possono indurre.
La scelta del farmaco è un’operazione importante e delicata e deve essere sempre discussa con qualcuno di competente (meglio se uno psichiatra).
La psicoterapia per i disturbi d’ansia
La psicoterapia per i disturbi d’ ansia consente di ricevere supporto e attenzione ai problemi emotivi associati ai disturbi stessi. La psicoeducazione include informazioni sulla fisiologia dei sintomi corporei delle reazioni d’ansia e informa sulle possibilità di trattamento disponibili. Molti pazienti possono richiedere interventi formali di trattamento psicoterapico, che sono per lo più eseguiti su base ambulatoriale (online o in studio). La psicoterapia online può essere una valida opzione per chi vive in aree in cui la psicoterapia non è ampiamente disponibile, per ridurre i periodi di attesa prima dell’inizio di una terapia in studio o nei casi in cui i sintomi di ansia siano così gravi da non permettere alla persona di uscire di casa. Sono anche meno costose delle psicoterapie faccia a faccia.
Altre opzioni
L’esercizio fisico può essere raccomandato solo in aggiunta ai trattamenti standard (psicoterapia e/o farmacoterapia). L’ipnosi, il training autogeno il biofeedback, l’agopuntura o l’omeopatia sono spesso raccomandati per il trattamento dell’ansia clinica. Tuttavia, mancano studi controllati che attestino la loro reale efficacia nel trattamento dei disturbi d’ ansia.
Come funziona la psicoterapia per l’ansia?
/in Psicologia clinica /da Giuseppe IannoneCiascuno di noi avrà fatto esperienza, almeno una volta nella sua vita, dell’ansia. Per alcune persone, poi, l’ ansia è una vera e propria costante che accompagna le giornate di chi ne soffre. Ma sono forse in pochi a sapere a cosa serve l’ansia. E che esistono diversi tipi di ansia. Leggendo questo articolo imparerai a riconoscere come si manifesta l’ansia nel tuo corpo e a utilizzarla come una bussola per orientare l’esistenza. Infine, ti spiegherò come funziona la psicoterapia per l’ansia.
Il segreto dell’ansia
Basta digitare la parola “ansia” su Google ed ecco apparire diverse definizioni su cosa sia l’ ansia. “L’ansia è uno stato aspecifico che può rimandare a diverse situazioni, sia positive che negative”. “Si può essere in ansia prima di un esame, di un appuntamento, di un colloquio, prima della nascita di un figlio, eccetera”. Quello che invece spesso è meno noto è che l’ansia nasconde sempre un’emozione di cui non si è consapevoli. Perché succede questo? Semplice, perché l’ansia offusca il senso di quello che stiamo sentendo e vivendo. Essendo un’emozione che ha forti quanto sgradevoli ripercussioni sul nostro corpo, riesce a monopolizzare la nostra attenzione. Per questo motivo si tende a chiamare ansia ciò che ansia in realtà non è.
Come funziona la psicoterapia per l’ansia?
Compito di un bravo psicoterapeuta è innanzitutto riconoscere che non tutto quello che il paziente, ingenuamente, chiama ansia è in realtà ansia, nel senso clinico ma anche esperienziale del termine. Lo step successivo in psicoterapia diventa quindi intercettare l’emozione che l’ansia ha offuscato e riportarla alla luce. Facciamo un esempio. Immaginiamo Giorgio (nome di fantasia) che arriva in studio e lamenta una sensazione diffusa e non meglio identificata di ansia che lo accompagna durante le sue giornate oramai da diversi mesi. “Non riesco a capire di cosa io possa avere ansia. L’ansia sembra arrivare dal nulla e quando mi rapisce mi trovo in balia di essa“, racconta. Nel corso delle sedute emerge che quello che Giorgio chiama impropriamente ansia si riferisce, invece, a una gamma ben più ampia di emozioni che emergono nelle diverse vicende che egli vive ogni giorno. E così Giorgio prova vergogna, ogni volta che incontra quella ragazza che lavora al bar che gli piace tanto ma con la quale non riesce ad attaccare bottone per paura di essere rifiutato. Allontanandosi dal bar, Giorgio avverte un senso di inadeguatezza e di tristezza, per non essere stato capace ancora una volta di rivolgere un semplice “ciao” alla barista. E ancora, Giorgio avverte rabbia quando vede che, invece, un altro avventore del bar ogni mattina riesce a conversare tranquillamente con lei. Annotare questi episodi su un diario (che Giorgio tiene in formato elettronico, come note sul suo smartphone) gli consente di riportare poi fedelmente gli episodi in psicoterapia. Durante le sedute abbiamo così modo di analizzare l’esperienza viva che Giorgio fa nelle diverse situazioni che accompagnano le sue giornate. Notiamo che invece l’ansia sparisce nelle situazioni in cui si sente sicuro di quello che fa, come, per esempio, al lavoro, o mentre gioca a calcetto con gli amici.
Tutto qui?
Non proprio. Non basta infatti riconoscere che l’ansia in realtà può nascondere altre emozioni. Occorre che Giorgio decida di passare all’atto pratico e, per esempio, proporsi di salutare la ragazza del bar. Perché? Non tanto perché siamo interessati al risultato, quanto per consentire a Giorgio di esporsi a una situazione che teme. Per paura di essere rifiutato e di fare una brutta figura. Chiedo anche a Giorgio di annotare sul suo diario l’esperienza. Giorgio ritorna in terapia raggiante. Finalmente è riuscito a fare il grande passo. “Dottore, è stato più facile del previsto. Mi sono detto ok, si tratta di un compito terapeutico. Semplicemente, sono entrato nel bar e mi sono avvicinato a lei salutandola. Lei ha risposto al mio saluto e mi ha chiesto come stessi. Le ho raccontato che quel mattino avrei avuto una riunione importante e che avevo bisogno di un buon caffè che mi tirasse su” -racconta. “Lei si è messa a ridere e mi ha detto che mi avrebbe preparato il caffè più buono al mondo”. E’ interessante osservare come Giorgio sia stato bravo a smettere di evitare una situazione temuta e che abbia invece fatto questa nuova esperienza che tanto lo spaventava. Volete sapere com’è andata a finire? No, i due non si sono messi assieme. Da quel giorno Giorgio ha avuto modo di scambiare ogni volta due chiacchiere con quella ragazza e, nel corso del tempo, ha capito che “Non era la tipa che faceva per me. Non so, quando non la conoscevo l’avevo un pò idealizzata, mi sembrava misteriosa, particolare, perfetta, oserei dire. Facendo la sua conoscenza, invece, ho potuto intuire come in realtà ci fossero ben poche cose di lei che mi affascinassero”.
La morale della favola (e della terapia)
Cos’ha imparato Giorgio? Diverse cose. In primis, ha compreso, facendone esperienza diretta che, quella che lui chiamava ansia era in realtà paura di essere rifiutato. Da una ragazza, poi, che lui aveva assolutamente idealizzato. In secundis, il compito terapeutico di salutare la ragazza gli ha consentito di confrontarsi con il fantasma del rifiuto e di affrontarlo. Da quel giorno Giorgio, conoscendo sempre meglio la ragazza del bar ha anche potuto fare un “bagno di realismo” e accorgersi che “la tipa non era nulla di speciale”. Inutile aggiungere che da quel giorno ogni volta che Giorgio si recava al bar non avvertiva più quella morsa allo stomaco, quel senso di vertigine, né il cuore battere all’impazzata. Non gli tremavano più le mani né la fronte gli si imperlava di sudore. “Mi sento uno stupido per tutta l’ansia sprecata“, racconta ormai sorridendo…
A questo punto ti dovrebbe essere più chiaro come funziona la psicoterapia per l’ansia. Hai ancora dubbi? Contattami, sarò lieto di rispondere alle tue domande.
Attacco di panico o attacco di solitudine?
/in Psicologia clinica /da Giuseppe IannoneLe teorie psicologiche classiche considerano l´attacco di panico come una risposta di paura intensa, esagerata, incontrollata e inappropriata. Secondo queste teorie la paura scaturirebbe dall´attivazione dell´amigdala e di altre aree cerebrali che regolano l´emozione della paura. Di conseguenza, gli approcci psicoterapeutici che prendono le mosse da questa teoria (specialmente la psicoterapia cognitivo comportamentale) hanno per obiettivo la riduzione dello stato di paura del paziente. Esercizi di desensibilizzazione, di esposizione, la disputa dei pensieri disfunzionali ecc., sono tra i principali compiti e tecniche che si offrono al paziente nel tentativo di ridurre la sintomatologia. Alcune teorie fenomenologichguardano invece a certe forme di attacco di panico come attacco di solitudine.
La brutta notizia
La brutta notizia, però, è che spesso tali interventi non danno risultati duraturi. Inoltre, sappiamo anche che i farmaci come le benzodiazepine hanno uno scarso effetto sull´incidenza del panico. Invece, gli SSRI (una classe di antidepressivi) sono considerati i farmaci di elezione per combattere il panico.
Una nuova teoria sul panico
La teoria fenomenologica offre una nuova visione sul concetto di panico. Secondo questa teoria, il panico non sarebbe tanto (o soltanto) un attacco di paura intensa, esagerata, incontrollata e inappropriata. Invece, il panico è l´esperienza che si fa quando ci troviamo esposti a situazioni che percepiamo come potenzialmente incontrollabili e contemporaneamente sentiamo di non avere nessuno su cui poter contare. Attacco di panico o attacco di solitudine, quindi?
A corroborare questa visione del panico concorrono alcuni dati provenienti dalla ricerca. Innanzitutto, uno dei sintomi del panico è la fame d´aria. Ebbene, la fame d´aria occorre raramente in situazioni di paura acuta, generata da un evento esterno. Inoltre, a differenza della paura, durante un attacco di panico non assistiamo all´attivazione del sistema HPA. Il sistema HPA regola la risposta allo stress. Questo sistema sembra essere addirittura inibito dal panico. La tachicardia e le altre forme di attivazione fisiologica durante un attacco di panico sono invece prodotte da una soppressione vagale (parasimpatica) piuttosto che da un´attivazione simpatica.
Inoltre, durante un attacco di panico, l´esperienza principale è quella di stare per morire o impazzire. La paura arriverebbe soltanto in un secondo momento. E riguarda, in genere, la preoccupazione che un attacco di panico possa ripetersi. Oppure che si abbia qualche malattia. O che si possa impazzire. Secondo questa visione, la paura sarebbe quindi secondaria e successiva all´attacco di panico (sicuramente almeno al primo attacco di panico, aggiungerei io). Infatti, è solo dopo il primo attacco di panico che la persona di solito inizia a vivere in uno stato di forte angoscia, ansia anticipatoria e sviluppa una paura dei sintomi del panico!
Panico e difficoltà a riconoscere le emozioni
Dopo il primo attacco di panico la persona di solito inizia un ossessiva quanto eccessiva autoosservazione. Perché? Per intercettare e controllare ogni minima variazione corporea che possa somigliare all´esperienza di panico. Ma così facendo, la persona non presta attenzione agli elementi contestuali nei quali i sintomi possono emergere. Non di rado chi soffre di panico soffra anche di alessitimia.
L´alessitimia (dal greco a- «mancanza», lexis «parola» e thymos «emozione» dunque: «mancanza di parole per [esprimere] emozioni») è un costrutto psicologico noto anche come analfabetismo emotivo che descrive una condizione di ridotta consapevolezza emotiva. L´alessitimia comporta l’incapacità sia di riconoscere sia di descrivere verbalmente i propri stati emotivi e quelli altrui. Le persone che soffrono di panico non sono né inclini né capaci di chiedere aiuto. Sono spesso diffidenti. Non sanno riconoscere ed esprimere le loro necessità affettive.
Non stupisce che il panico si manifesti proprio in situazioni in cui la persona sta attraversando un passaggio importante della sua vita. La laurea, il matrimonio, un trasloco, un cambio lavorativo, difficoltà relazionali o economiche, la morte di un caro, la fine (ma anche l´inizio!) di una relazione affettiva. Cos´hanno in comune queste situazioni? La persona si sente maggiormente esposta al mondo, un mondo nuovo, spesso sconosciuto, in cui il contesto relazionale non funge più da sponda per contenere la piena che sta per investire la vita della persona.
In poche parole, ci si sente soli in balìa del mondo. Proprio come un bambino che, al supermercato, improvvisamente si accorge di essersi perso e non trova più i suoi genitori.
Panico e agorafobia
L´agorafobia è forse la situazione che meglio incarna questa sensazione. La paura di trovarsi in spazi aperti diviene metafora del trovarsi esposti a un mondo senza la necessaria mediazione affettiva. Non stupisce, quindi, che chi soffre di panico e di agorafobia, abbia bisogno di una persona che stia con lui/lei proprio per non sentirsi soli in balìa del mondo.
Panico e claustrofobia
Anche il timore di sentirsi costretti in una situazione può elicitare un attacco di panico. Da un lato, come abbiamo visto, chi soffre di panico tende a ricercare la vicinanza e il contatto con l´altro per non sentirsi solo al mondo. Dall´altro, però, l´eccessiva vicinanza dell´altro viene vissuta come asfissiante. Una relazione che sta per sfociare in una convivenza o un matrimonio, le imposizioni sul lavoro, ecc. sono situazioni emblematiche nelle quali chi soffre di panico fatica a trovarsi.
Panico o ansia da separazione?
In virtù di quanto sopra esposto alcune correnti fenomenologiche, di stampo gestaltico, guardano al panico come a un sottotipo di ansia da separazione piuttosto che a una paura generica. Nello specifico, il panico viene considerato un attacco acuto di solitudine.
Panico, depersonalizzazione e derealizzazione
La depersonalizzazione e la derealizzazione sono sintomi dissociativi molto comuni in chi soffre di panico. Come dicevamo, chi soffre di questo disturbo tende a non riconoscere le proprie emozioni (né tantomeno i contesti nei quali queste si generano). Né a riconoscere la causa psicologica e sociale dei sintomi, ai quali invece imputa una causa somatica. Svuotata dalla componente psicologica, l´esperienza di separazione, caratterizzata da angoscia e smarrimento, assume le sembianze della depersonalizzazione e della derealizzazione. Le sembianze di un corpo-organismo che soffre, patisce e non di un corpo-vivo in una situazione “scomoda”. Esperienze traumatiche in età infantile sembrano giocare un ruolo nella manifestazione, in età adulta, di depersonalizzazione e derealizzazione.
Eterogeneità del panico e implicazioni cliniche per una buona psicoterapia
Il panico è un disturbo mentale complesso e multisfaccettato. È caratterizzato da un insieme di sintomi (ben 13!) che si combinano in maniera diversa in diversi individui. Non esiste e non può esistere una psicoterapia valida per ogni caso di panico (così come di nessun altro disturbo mentale). In primis perché comunque si ha davanti a sé, ogni volta, una persona diversa. In secundis perché la combinazione dei 13 sintomi del panico varia sia tra persone diverse che nella stessa persona.
La psicoterapia deve tener conto della specificità di ciascun caso e farsi personalizzata e cucita su misura su ciascun individuo. Attraverso la relazione terapeutica la persona che soffre di panico ricomincia a ritornare gradualmente in sintonia con i propri stati emotivi. E impara a riconoscere i contesti comodi da quelli scomodi. Uno dei miei scopi nella terapia del panico è permettere alla persona di accorgersi delle loro emozioni e necessità che spesso sono state misconosciute per troppo tempo. La relazione terapeutica infine può fungere da contesto che aiuta la persona a sì muoversi verso l’indipendenza e all´autonomia. Senza sentirsi sopraffatto dal mondo e senza dover necessariamente rinunciare all’altro.