Sei un narcisista empatico?

Viviamo in un’epoca in cui la sofferenza è sbandierata ovunque: nei notiziari, nei social network, nelle conversazioni quotidiane. Molte persone si dichiarano “empatiche”, parlano del dolore altrui o di temi gravi come le guerre, la povertà, i grandi cambiamenti climatici, la malattia, la perdita, la violenza o il disagio mentale come se stessero parlando della ricetta della torta della nonna. Qual è allora la differenza sottile, ma cruciale, tra empatia e pseudo-empatia? E perché il modo in cui raccontiamo il dolore dice molto sulla nostra capacità di entrare in contatto con esso?

Empatia: sentire non è solo capire

Empatia non è comprendere cosa l’altro stia sentendo, perché l’esperienza è sempre e soltanto di chi la vive. Non possiamo davvero “metterci nei panni dell’altro”, poiché quei panni appartengono solo a lui: hanno la sua storia, la sua sensibilità, il suo corpo emotivo. Possiamo, al massimo, immaginare come noi ci sentiremmo in una situazione simile, ma resta una proiezione del nostro vissuto, non una comprensione autentica del suo. L’empatia, allora, non è immedesimazione, ma ascolto rispettoso della diversità dell’altro, un incontro che riconosce i limiti del nostro sentire e li onora.

Non sempre la frequenza e il modo con cui si parla di sofferenza è segno di empatia. Anzi, proprio la facilità con cui si usa un linguaggio crudo, enfatico o spettacolare rivela una mancanza di empatia. Perché chi comprende davvero la sofferenza — la propria o quella degli altri — tende a parlarne con misura, rispetto e delicatezza. Che traspare dalla scelta delle parole, dalla prossemica, dall’accorgersi in tempo reale dell’effetto che il racconto ha su chi ascolta.

In psicologia distinguiamo due forme di empatia:

Empatia cognitiva: la capacità di comprendere razionalmente cosa prova l’altro.

Empatia emotiva: la capacità di risuonare affettivamente con quel vissuto, di sentirne una traccia dentro di sé.

Potrebbe sembrare strano ma non lo è: quando una persona parla di dolore o di tragedie umane in modo eccessivamente enfatico, con toni drammatici o ricchezza di particolari, potrebbe mancare proprio di questa seconda componente.

Può capire — razionalmente — cosa significhi “soffrire”, ma non “sente” davvero. E questa percezione affievolita la porta a usare parole forti, immagini crude o toni teatrali, senza percepire l’effetto che tali espressioni possono avere su chi ascolta.

Pseudo-empatia e bisogno di visibilità

Alcune persone parlano del dolore altrui per appropriarsene. Il racconto della sofferenza diventa uno strumento di attenzione, un modo per sentirsi più profondi, più buoni o più “vicini” alla vita.

È una forma di pseudo-empatia: non nasce da un contatto con l’altro, ma da un bisogno personale di apparire sensibili o di riempire un vuoto interiore.

Cos’è il narcisismo empatico?

Basta sintonizzarsi su qualsiasi mezzo di comunicazione: post strazianti, immagini di tragedie, riflessioni intense sulla morte o sul dolore vengono condivise su social e affini con toni drammatici. Tuttavia, dietro l’apparente compassione si cela spesso un narcisismo empatico, cioè la tendenza a usare il dolore come palcoscenico per sé stessi. Uno se ne accorge guardando in faccia l’interlocutore: nonostante racconti di temi dolorosi, le sue emozioni non sono in linea col contenuto del racconto. È come se raccontassi della vittoria della Champions’ League della mia squadra di calcio con una precisione chirurgica sull’analisi tecnico-tattica della partita ma con una mimica facciale improntata alla neutralità. Chi chiamerebbe “appassionata” una persona così? Al massimo la definiremmo un cronista. “Appassionato”, “compassione”, “compatire”, “cum-patire”: sentire-con. E non solo raccontare, esibire, mettere in mostra la sofferenza come si mette in mostra la frutta al mercato.

Chi ha vissuto davvero la sofferenza tende invece a parlarne con sobrietà. Non perché non la senta, ma proprio perché la conosce in prima persona. Conosce il peso di ogni singola parola e quindi le sceglie con cura. Con rispetto di chi ha provato quella sofferenza. E di chi ascolta. Al contrario, chi non ha contatto reale con il dolore può permettersi di usare parole forti, crude o eccessivamente enfatiche. Non sente il peso di quelle parole, perché non ne conosce davvero la risonanza.Più si rende la sofferenza un concetto, un racconto o uno slogan, meno se ne sente la sua realtà. Chi parla così del dolore non sta ascoltando almeno 3 persone:

-se stesso

-chi ascolta

-la persona a cui appartiene l’esperienza dolorosa.

Il rispetto come forma più profonda di empatia

L’empatia autentica non ha bisogno di grandi parole. Si manifesta nel silenzio, nella presenza, nella capacità di ascoltare senza giudicare. Per questo il rispetto è una delle forme più alte di empatia.

Rispettare la sofferenza significa:

• Non appropriarsene.

• Non renderla spettacolo.

• Non usarla per apparire profondi.

• Riconoscere che parlare del dolore richiede estrema cautela.

È come se un chirurgo raccontasse ai familiari di un suo paziente, morto sotto i ferri, ogni particolare dell’operazione dimenticandosi che sta parlando proprio ai parenti del defunto..!

L’empatia in psicoterapia

Nella pratica terapeutica, il rispetto del dolore si traduce in un linguaggio che non invadе. Il terapeuta sa che certe parole possono consolare, mentre altre possono ferire, anche se dette con buone intenzioni. Lo stesso vale per chi comunica in ambito pubblico: scrivere o parlare di dolore richiede responsabilità emotiva.

Come raccontare la sofferenza?

Il racconto del dolore è una parte essenziale della vita umana. Raccontare significa dare forma a ciò che altrimenti resterebbe muto, trovare un senso nella confusione emotiva. Tuttavia, anche il racconto ha bisogno di un’etica della parola.

Chi scrive, parla o ha a che fare con la sofferenza dovrebbe chiedersi:

• Sto raccontando per comprendere o per impressionare?

• Le mie parole rispettano la dignità di chi soffre e di chi ascolta?

• Sto aspettacolarizzando il dolore o mi sto autoincensando? 

Un linguaggio empatico è sobrio, non ostenta a tutti i costi, rispetta i limiti di chi ascolta. Evita le descrizioni crude quando non necessarie, preferisce l’allusione alla drammatizzazione. In questo senso, la delicatezza non è debolezza: è consapevolezza.

Empatia e responsabilità comunicativa

La parola ha un potere enorme e immediato. Ogni frase, ogni commento, ogni condivisione può toccare persone in modi che non immaginiamo. Per questo motivo, l’empatia oggi è anche una forma di alfabetizzazione emotiva e comunicativa.

Parlare con empatia significa:

• Pesare le parole.

• Considerare chi ci ascolta o ci legge.

• Evitare il sensazionalismo.

Chi è davvero empatico non ha bisogno di “mostrare” né chi soffre né quanto soffre. Ha una cura particolare del linguaggio, gentilezza nei toni, sobrietà nei contenuti.

Verso un’etica della parola

L’empatia autentica non fa rumore, è contenuta, rispettosa, non cerca le luci della ribalta. Non usa parole eccessive, non si appropria del dolore altrui, non ne fa una bandiera morale.

Sa che la sofferenza è qualcosa di sacro, che merita attenzione ma anche distanza e pudore. Chi parla spesso di dolore in modo crudo o enfatico, credendo di essere empatico, rivela in realtà una difficoltà a entrare davvero in contatto con il dolore che racconta. È come se il linguaggio diventasse una corazza: si pronunciano parole forti e non si sente la fragilità che quelle stesse parole evocano. Per questo, nel racconto della sofferenza, la misura è la forma più alta di empatia. Non serve dire tutto. Basta dire il giusto, nel modo giusto. Perché l’empatia non si esprime con l’intensità delle parole, ma con la qualità della presenza che esse custodiscono.