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Una storia di crisi di coppia

Nel mio lavoro di psicoterapeuta mi capita di incontrare persone che arrivano in studio confuse, arrabbiate, svuotate. Non raccontano di tradimenti o di freddezza affettiva, ma di un partner che non smette mai di parlare di dolore: guerre, disuguaglianze, catastrofi, malattie, ingiustizie sociali. “Tutto è sempre un dramma,” mi dicono. “Non c’è mai spazio per la leggerezza. È come vivere in un telegiornale tragico 24 ore su 24”. Il racconto di storie di sofferenza diventa l’unico registro possibile in alcune relazioni. Quando ogni conversazione ruota attorno a storie di dolore è sofferenza, chi vive accanto può sentirsi svuotato, impotente e privo d’aria. 

Quando l’altro vive solo di dolore

Laura, 33 anni, lavora nel sociale. È empatica, sensibile, sempre pronta ad aiutare. Marco, il suo compagno, la definisce “una calamita per il dolore degli altri”. Ogni sera Laura torna a casa e racconta di tragedie, ingiustizie, storie difficili. Per lei è naturale condividere tutto, anche le emozioni più pesanti. Per Marco, però, questa abitudine è diventata fonte di disagio costante: «Ogni volta che parla, mi sento risucchiato in un vortice di sofferenza. Non sa parlare di altro. Non ha un interesse, un hobby, una passione, nulla. Mi viene il batticuore, mi chiudo, poi mi arrabbio. E finiamo sempre per litigare». Nel tempo, Marco ha iniziato a rendersi conto che non è la sofferenza in sé a irritarlo, ma l’assenza di altri spazi emotivi nella loro relazione. Non c’è leggerezza, curiosità, desiderio. Solo dolore condiviso. Ogni discussione finisce con urla, pianti o silenzi. «Non possiamo più parlare di niente», dice lui. Laura tende a esprimere la sofferenza con intensità. Marco reagisce chiudendosi o esplodendo di rabbia. Dopo ogni lite, entrambi si sentono svuotati e pieni di colpa. In terapia di coppia, emerge che non è tanto il contenuto dei conflitti a creare il problema, ma la modalità di attivazione reciproca. 

Quando la sensibilità diventa identità

Molte persone impegnate professionalmente o idealmente nel sociale — medici, psicologi, operatori umanitari, giornalisti, attivisti — vivono quotidianamente immerse nel dolore altrui. Spesso sono individui di grande sensibilità e intelligenza emotiva. Il problema nasce quando questa sensibilità si trasforma in identità, e la sofferenza del mondo diventa la lente unica attraverso cui guardare tutto il resto. Parlare di tragedie, analizzare dinamiche sociali, denunciare ingiustizie sono attività necessarie e, a volte, nobili. Ma quando diventano l’unico tema possibile anche nella sfera intima, qualcosa si inceppa.

L’altro — il partner, l’amico, il familiare — inizia a sentire di non avere più spazio per portare se stesso, le proprie emozioni, o semplicemente un momento di leggerezza.

Perché alcune persone non riescono a “staccare”

Non sempre chi parla solo di tragedie lo fa per gusto del dramma. Spesso dietro c’è un meccanismo di controllo o di difesa. Occuparsi costantemente del dolore del mondo può diventare un modo per non guardare al proprio, o per sentirsi moralmente al sicuro. La rabbia verso l’ingiustizia, ad esempio, può offrire una forma di energia e di coerenza personale che compensa la fatica interiore.

In altri casi, “vivere nel dolore” può diventare una dipendenza emotiva: l’indignazione e la tristezza croniche offrono una sensazione di significato e appartenenza, anche se tossica. Il problema è che, nel lungo periodo, questo atteggiamento rischia di permeare ogni aspetto dell’esistenza.

Il peso emotivo di chi ascolta sempre

Chi vive accanto a una persona che parla costantemente di dolore e ingiustizie non è indifferente: spesso è empatico, curioso, partecipe. Ma nel tempo comincia a percepire un peso crescente. Il corpo lo dice prima della mente: tensione, respiro corto, pensieri che corrono, irritazione improvvisa.

A livello emotivo, emerge un misto di frustrazione, rabbia e ansia. Questa fatica non nasce dal cinismo, ma dal fatto che l’essere umano ha bisogno di alternanza.A bbiamo bisogno di dolore e di speranza, di profondità e di leggerezza. Se domina un solo registro la psiche si impoverisce, e la relazione perde equilibrio.

 

La rabbia di chi non ce la fa più

In terapia, molti partner raccontano la stessa scena: il corpo che si tende, il cuore che accelera, la testa che si svuota mentre l’altro inizia a parlare con tono concitato delle ultime tragedie.

“Mi sento come se mi scaricasse addosso tutta la sofferenza del mondo,” dicono. “E poi mi sento in colpa per la mia rabbia.”

Questa rabbia, però, non è segno di insensibilità, ma di autodifesa. È il confine del corpo che dice “non posso più assorbire tutto questo”. Il problema è che, se l’altro non sa riconoscerlo e continua a parlare con enfasi crescente, si crea un circolo vizioso: più uno si chiude, più l’altro alza il volume, più il primo esplode. Nel tempo, questa dinamica logora il legame e fa nascere un sentimento di esaurimento e impotenza, fino al desiderio di fuga.

Come ritrovare equilibrio nella relazione

Ristabilire un equilibrio non significa smettere di interessarsi al mondo, ma restituire proporzione alle emozioni.

Alcuni passi utili, che spesso esploro in terapia, includono:

1. Riconoscere la saturazione

Ammettere che si è stanchi non è disinteresse. È onestà. Dire “non riesco a parlare ancora di questo” è un confine sano, non un atto di egoismo.

2. Coltivare la leggerezza come valore

La leggerezza non è fuga dal dolore, è il suo controcanto. Guardare un film, ridere, parlare di passioni personali sono azioni che mantengono viva la relazione. La leggerezza non è superficialità — è una funzione psichica fondamentale. Ridere, distogliere lo sguardo, cambiare argomento, sono atti di salute mentale. Permettono al sistema nervoso di scaricare la tensione e all’affettività di rigenerarsi. Senza leggerezza, anche l’impegno più nobile si trasforma in rigidità e isolamento

3. Invitare al dialogo, non alla colpa

Invece di accusare (“parli solo di tragedie”), si può provare a condividere il proprio vissuto: “Quando parliamo sempre di cose tristi, mi sento svuotato. Mi piacerebbe che trovassimo anche spazi per altro”. È una frase semplice, ma che apre una possibilità di incontro.

4. Riconnettersi alla propria vitalità

Spesso, chi vive accanto a un partner immerso nel dolore smette di coltivare i propri interessi. Riprendere spazio per sé — anche senza coinvolgere l’altro — è un modo per ritrovare ossigeno e stabilità.

Quando il cambiamento non arriva

Purtroppo, a volte, nonostante i tentativi, nulla cambia. L’altro continua a portare avanti il proprio modo di stare nel mondo, e tu ti ritrovi sempre più svuotato. E la relazione da luogo di scambio si trasforma in luogo di esaurimento. In questi casi, la decisione di allontanarsi può essere un atto di cura reciproca. 

Amare qualcuno non significa accettare di vivere per sempre dentro la sua tonalità emotiva. Il rispetto per l’altro deve includere anche il rispetto per il proprio bisogno di vita.

Se ti accorgi di vivere accanto a chi parla solo di sciagure, chiediti: “C’è ancora spazio per me, per il gioco, per la curiosità, per il desiderio?” Se la risposta è no, non è egoismo voler respirare. È un atto di lucidità e di rispetto verso la vita stessa.

La psicoterapia di coppia (o individuale) può aiutare a:

Riconoscere i propri copioni relazionali.

• Imparare a regolare l’attivazione emotiva durante il conflitto.

Coltivare nuovi modi di connettersi, basati su curiosità, leggerezza e rispetto reciproco.

Scegliere consapevolmente se ricostruire o lasciar andare, senza rancore.

Non tutte le relazioni devono essere salvate, ma tutte meritano di essere comprese.

A volte, la scelta più sana è smettere di ripetere un copione che ci ferisce. Ti va di parlarmene in psicoterapia?