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Un trauma da bambino può causare ansia da adulti?

Una cosa per volta. Partiamo dalla definizione di “trauma” perché il termine viene spesso usato erroneamente in riferimento a molte esperienze dolorose o spiacevoli che tuttavia non costituiscono un trauma.

Un evento traumatico è un evento spaventoso, pericoloso o violento che rappresenta una minaccia per la vita o l’integrità fisica di una persona. Anche essere testimone di un evento traumatico che minaccia la vita o la sicurezza fisica di una persona cara può costituire un’esperienza traumatica.

Le esperienze traumatiche possono innescare forti emozioni e reazioni fisiche che possono persistere a lungo dopo l’evento. I bambini possono provare terrore, impotenza o paura, oltre a reazioni fisiologiche come battito cardiaco accelerato, vomito o perdita del controllo dell’intestino o della vescica. I bambini che sperimentano l’incapacità di proteggersi o che non hanno protezione dagli altri per evitare le conseguenze dell’esperienza traumatica possono anche sentirsi sopraffatti dall’intensità delle risposte fisiche ed emotive.

Ciò è particolarmente importante per i bambini piccoli poiché il loro senso di sicurezza dipende dalla sicurezza percepita delle loro figure di attaccamento.

Anche se gli adulti lavorano duramente per mantenere i bambini al sicuro, accadono ancora eventi pericolosi. Questo pericolo può provenire dall’esterno della famiglia (come un disastro naturale, un incidente automobilistico, una sparatoria a scuola o la violenza della comunità) o dall’interno della famiglia, come la violenza domestica, l’abuso fisico o sessuale o la morte inaspettata di una persona cara .

Quali esperienze possono essere considerate traumatiche?

  • Abuso fisico, sessuale o psicologico e negligenza
  • Disastri naturali (terremoti, alluvioni, tsunami, ecc.)
  • Atti terroristici
  • Violenza familiare o comunitaria
  • Perdita improvvisa e violenta di una persona cara
  • Esperienze di guerra (inclusa la tortura e la condizione di rifugiato)
  • Incidenti gravi o malattia mortale

Quando un bambino si trova in una di queste situazioni in cui teme per la propria vita o la vita dei suoi cari, crede di poter essere ferito, assiste a, o è vittima di, violenze oppure perde tragicamente una persona cara, può mostrare segni di stress traumatico infantile. I bambini che soffrono di stress traumatico infantile sono coloro che, esposti a uno o più traumi nel corso della loro vita, sviluppano reazioni che persistono e influenzano la loro vita quotidiana dopo che gli eventi si sono conclusi.

Il trauma infantile è associato al successivo sviluppo di disturbi depressivi e d’ansia.

In uno studio condotto nei Paesi Bassi (Kuzminskeite, 2022) su quasi 3 mila adulti

il 48% ha riferito di aver subito un trauma infantile. Di questi, il 21% ha riportato un trauma grave, mentre il 27% ha riportato un trauma lieve

Tra quelli con trauma, l’89% presentava un disturbo d’ansia o depressivo in corso o in remissione Tra i partecipanti che non hanno riportato alcun trauma, il 68% presentava un disturbo psichiatrico in corso o in remissione

La disregolazione dei sistemi implicati nella risposta allo stress può contribuire a spiegare perché il trauma infantile ha un impatto psichiatrico così drammatico e duraturo.I ricercatori di questo studio hanno scoperto che i livelli di cortisolo e di infiammazione erano significativamente elevati nelle persone con gravi traumi infantili rispetto a quelli senza traumi infantili. Le persone con gravi traumi infantili tendevano inoltre ad avere un indice di massa corporea più elevato, a fumare di più e ad avere altre abitudini malsane che potrebbero rappresentare un meccanismo di “coping” per gestire il trauma. Coloro che avevano subito traumi infantili avevano anche tassi più elevati di asma, diabete e malattie cardiovascolari. Infine le persone con traumi infantili hanno almeno il doppio del rischio di sviluppare il cancro in età avanzata.

I ricercatori hanno poi esaminato i marcatori immuno-infiammatori stimolati dai lipopolisaccaridi (LPS) in base alla gravità del trauma infantile. Ciò fornisce una misura più “dinamica” dei sistemi di stress rispetto a misurare solo i livelli circolanti statici nel sangue. Quasi tutte le persone con traumi infantili, in particolare quelle che avevano subito traumi gravi, avevano le citochine stimolate da LPS sovraregolate.

Tutti i bambini che fanno esperienze traumatiche sviluppano uno stress traumatico?

Fortunatamente, anche quando i bambini vivono un evento traumatico, non sempre sviluppano uno stress traumatico. Molti fattori contribuiscono ai sintomi, tra cui:

  • Gravità dell’evento. Quanto è stato grave l’evento? Quanto gravemente è stato ferito fisicamente il bambino o qualcuno che ama? La polizia è stata coinvolta? I bambini sono stati separati dai loro caregiver? Sono stati intervistati da un avvocato, un agente di polizia o un assistente sociale? È morto un amico o un familiare?
  • Vicinanza all’evento. Il bambino si trovava effettivamente nel luogo in cui si è verificato l’evento? Hanno visto accadere l’evento a qualcun altro o ne sono stati una vittima? Il bambino ha guardato l’evento in televisione? Hanno sentito una persona cara parlare di quello che è successo?
  • Reazioni dei caregiver. Come hanno reagito i caregiver? Il bambino ha affronto l’evento da solo?
  • Storia precedente di trauma. I bambini continuamente esposti a eventi traumatici hanno maggiori probabilità di sviluppare reazioni di stress traumatico.
  • Fattori familiari e comunitari. La cultura, la razza e l’etnia dei bambini, delle loro famiglie e delle loro comunità possono essere un fattore protettivo, il che significa che i bambini e le famiglie hanno qualità e/o risorse che aiutano a proteggersi dagli effetti dannosi delle esperienze traumatiche e delle loro conseguenze. Uno di questi fattori protettivi può essere l’identità culturale del bambino. La cultura ha spesso un impatto positivo sul modo in cui i bambini, le loro famiglie e le loro comunità rispondono, si riprendono e guariscono da un’esperienza traumatica. Al contrario, le esperienze di razzismo e discriminazione possono aumentare il rischio di un bambino di sviluppare sintomi di stress traumatico.

ansia e sigarette

Fumare aiuta a gestire l´ansia?

Fumare aiuta a gestire l’ansia? I danni provocati dal fumo di sigaretta sono oramai noti. Il fumo fa aumentare la pressione arteriosa, accelera l’aterosclerosi, ostacolando la circolazione del sangue nei vasi e aumentando il rischio di infarto e ictus. I problemi circolatori causati dal fumo possono, a loro volta, determinare impotenza nell’uomo, declino mentale e invecchiamento precoce della pelle.

Tante persone fumano quando si sentono stressate o in ansia e riferiscono che fumare sia un metodo anti stress e anti ansia. Ma è davvero così?

Tutt´altro! La nicotina, infatti, non ha un´azione rilassante bensì attivante. Non c´è da stupirsi che il fumo di sigaretta aumenti il rischio di soffrire di disturbo di panico con o senza agorafobia

Fumare crea affanno e un senso di debolezza. In chi è già ansioso questi sintomi possono esacerbare l’ansia. In chi già soffre di attacchi di panico, poi, l’oppressione fisica o pesantezza al petto può acuire il malessere o addirittura scatenare l’attacco.

Fumare aiuta a gestire l’ansia?

Sebbene la causa dell´associazione tra panico e fumo rimanga controversa, le principali spiegazioni sono le seguenti:

1️⃣ il fumo di sigaretta promuove il panico inducendo anomalie respiratorie, malattie polmonari o aumentando le sensazioni corporee potenzialmente causa di paura.

2️⃣ la nicotina produce effetti fisiologici caratteristici del panico rilasciando noradrenalina.

3️⃣ chi soffre dl disturbo di panico usa le sigarette come automedicazione.

4️⃣ una vulnerabilità condivisa promuove entrambe le condizioni.

Ma allora perché tante persone riferiscono di sentirsi meno stressate e meno in ansia dopo aver fumato?

Questo può succedere quando la persona ha una dipendenza dalla nicotina. Se non si fuma per un certo periodo di tempo, l´organismo inizia a reclamare nicotina perché va in uno stato di astinenza. Sarebbe quindi l´astinenza a manifestarsi con sintomi di ansia e stress. Ed è per questo motivo che, una volta fumato, i livelli di ansia e stress diminuirebbero sensibilmente. Ma questo ovviamente non significa che il fumo abbia proprietà anti ansia o anti stress.

È stato invece appurato che smettere di fumare giova a chi soffre sia di stress che di ansia .

La psicoterapia può aiutarti a smettere di fumare. Torna a respirare e dai un calcio al panico. Cervellocuore e polmoni ti ringrazieranno.

Hai letto: fumare aiuta a gestire l’ansia?

personalità

Mobbing: cosa fare?

Quando il posto di lavoro diventa un incubo. Il mobbing
Il mobbing è un fenomeno che riguarda i contesti di lavoro in cui comportamenti aggressivi e vessatori vengono esercitati contro qualcuno da parte di colleghi o superiori. Cosa fare per proteggersi da questa forma di stress psicosociale?

Che cos’è il mobbing?


La parola mobbing viene dal verbo inglese “to mob” che significa “aggredire”, “attaccare in gruppo”, “accerchiare”. Questa parola è stata utilizzata dall’etologo K. Lorenz per descrivere il comportamento delle specie animali in cui alcuni membri si coalizzano contro uno di loro. In questi casi, il gruppo può isolare, attaccare, escludere un membro fino a portarlo alla morte. Nella lingua inglese, inoltre, il verbo to mob indica l’atteggiamento dei cani nella caccia alla volpe.
In italiano, invece, è usato per indicare una forma di stress psicosociale caratteristica di alcuni ambienti di lavoro. Il mobbing è fonte di sofferenza importante per chi lo subisce.
Il mobbing, infatti, è una tipologia di violenza il cui fine ultimo è l’esclusione o l´emarginazione, reali o simboliche, della vittima dal contesto lavorativo.
È H. Leymann che lo descrive in questi termini a metà degli anni Ottanta. E che lo definisce come una modalità di comunicazione ostile ed immorale. In caso di mobbing, una o più persone manifestano aggressività e/o ostilità verso un altro individuo che potrebbe difficilmente trovare dei mezzi per difendersi. La persona che subisce le vessazioni da parte di colleghi, superiori o subalterni, è il lavoratore mobbizzato. Chi esercita violenza, invece, viene denominato “mobber”.
Se atti vessatori e violenze vengono messi in atto dal proprio superiore diretto o dai vertici dell’organizzazione, si può parlare di bossing.
Il mobbing orizzontale, invece, si verifica quando mobber e mobbizzato sono colleghi di pari grado. Se il mobber è un superiore o un collega di grado inferiore, si parla di mobbing verticale.

Come si manifesta il mobbing?


Si può parlare di mobbing ogni volta che sul contesto di lavoro si verificano comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti e sistematici contro una persona. Il carattere sistematico e ripetuto è fondamentale perché si possa parlare di mobbing.
Lo psicologo italiano H. Ege, per esempio, lo definisce come una forma di terrore psicologico che si deve protrarre per almeno sei mesi. Altri autori, in aggiunta, specificano che gli attacchi devono ripetersi almeno una volta a settimana.
Il mobbing, quindi, è una strategia di attacco ripetuto nel tempo che ha una finalità chiaramente persecutoria. Sulla persona mobbizzata viene esercitata una vera e propria violenza morale che può assumere diverse forme.

Quali sono le principali forme di mobbing?


Diffuse, per esempio, sono le pressioni psicologiche e le molestie, la calunnia, le offese personali, le minacce e le critiche. Maltrattamenti e forme eccessive di controllo possono esasperare il lavoratore e non sono esclusi atti vessatori indirizzati al privato del lavoratore, spesso relativi a variabili di genere, religione, razza. Sul piano lavorativo in senso stretto, inoltre, il mobbing si esprime attraverso lo svuotamento delle mansioni o l’attribuzione di compiti eccessivi. Talvolta, poi, può essere presente l’assegnazione di compiti dequalificanti. Elementi comuni, infine, sono l’esclusione dalle informazioni utili alle attività lavorative, l’estromissione dalle iniziative formative, l’impossibilità di accedere a mezzi e strumenti necessari.

Quando non è possibile parlare di mobbing?


Come è evidente, il mobbing si può esprimere attraverso una serie diversificata di azioni e comportamenti.
Affinché si possa parlare di mobbing, però, gli atti violenti e vessatori devono ripetersi sistematicamente nel tempo. Per questo motivo, non si può parlare di mobbing nel caso di una singola azione contro un lavoratore.
Il fenomeno del mobbing, inoltre, non si esprime attraverso i fenomeni di conflitto diffuso che coinvolgono fasce ampie di lavoratori in una stessa azienda. Simili situazioni di conflitto, spesso dovute a cambiamenti organizzativi, rientrano più che altro nel fenomeno dello stress lavoro-correlato.
Il mobbing, inoltre, non deve essere considerato un problema della persona o una sua malattia. Si tratta, infatti, di un problema dell’ambiente di lavoro che, però, può essere all’origine di disturbi psicofisici importanti.
In aggiunta, non è un fenomeno che si manifesta in ambienti diversi da quelli lavorativi, per esempio in ambito scolastico o familiare.
Infine, non si tratta di una molestia di carattere sessuale sul posto di lavoro. In alcuni casi il mobber può aggredire sessualmente la vittima o colpirla attraverso la calunnia ed altri atti vessatori in relazione alla sfera sessuale. La finalità, però, non è mai quella di ottenere prestazioni sessuali, quanto di umiliare, colpire o isolare la vittima.

Quali sono le conseguenze del mobbing?


Il mobbing può avere delle conseguenze negative sulla salute fisica e psicologica della persona. Chi è oggetto di atti vessatori ripetuti nel contesto di lavoro, infatti, può sviluppare ansia, depressione, problemi psicosomatici quali disturbi gastro-intestinali, dermatiti, dolori osteo-articolari. Nei casi più seri, inoltre, non è escluso che la persona possa sviluppare delle vere e proprie sindromi da stress.
A lungo andare, infatti, le situazioni di mobbing configurano una condizione di stress cronico che danneggia la salute.
Può essere interessante sottolineare che il mobbing può avere un impatto anche sulle relazioni familiari del mobbizzato. Se il mobbizzato condivide le sue difficoltà in famiglia può essere all’inizio compreso e sostenuto. In simili situazioni, però, può svilupparsi anche un distacco da parte dei familiari che produce ulteriore solitudine. È in questi casi che si parla di doppio mobbing. La famiglia, infatti, diventa un contesto rifiutante ed escludente come quello lavorativo.

Cosa fare in caso di mobbing?


Se pensate di essere vittima di mobbing, può essere molto importante rivolgersi a un professionista della salute mentale. L’intervento psicologico, infatti, oltre a fare chiarezza sulla effettiva presenza di fenomeni di mobbing sul posto di lavoro, può essere importanti in termini di supporto.
In questi casi, infatti, è fondamentale condividere l’esperienza con un esperto che possa aiutare nel potenziamento della risposta allo stress. Ciò comporta l’attivazione delle proprie risorse di coping e l’elaborazione di possibili vissuti disturbanti.
Non bisogna dimenticare, infine, che il mobbing può essere denunciato. Se è possibile ricorrere a vie legali al fine di interrompere atti vessatori e violenze, può essere necessaria la valutazione dei danni psicologici da mobbing. Una simile operazione si rende necessaria in caso di procedimenti giudiziari volti ad accertare le responsabilità negli atti vessatori.

Riferimenti bibliografici
Ege, H. (2005). Oltre il mobbing. Straining, stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro. Milano: FrancoAngeli.

ansia stress gastrite

Ansia, stress e gastrite

Molte persone soffrono di disturbi gastrici che si acuiscono in momenti di particolare ansia e stress. Cosa sappiamo delle relazioni tra psiche e pancia? Cosa ci dicono i disturbi gastrici sul nostro stato psicologico ed emotivo? Che cos’è la gastrite? La gastrite è un’infiammazione che coinvolge le mucose gastriche, interessando le pareti interne dello stomaco. […]

borderline

Il disturbo borderline di personalità

Come riconoscere se soffri di disturbo borderline di personalità? E quali sono le cure migliori per questa psicopatologia? Lo scopriamo insieme in questo articolo.

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Che cosa è un disturbo di personalità?

I disturbi di personalità sono disturbi mentali che compaiono di solito nella prima età adulta. Si caratterizzano per configurazioni tutto sommato stabili di stili affettivi, cognitivi e relazionali che connotano il carattere del soggetto e ne influenzano i comportamenti. Quando si parla di “disturbi di personalità”, quindi, non indichiamo forme di disagio psichico transitorie, quanto modalità stabili e patologiche di rapportarsi con sé stessi e con gli altri.

Che cos´è il disturbo borderline di personalità?

Il disturbo borderline è uno dei tanti disturbi di personalità.
Instabilità e conflittualità sono due caratteristiche frequenti di chi ne soffre. La persona vive spesso un ipercoinvolgimento patologico nei rapporti con partner, amici o familiari.
La sensibilità a possibili segnali di rifiuto da parte dell’altro è particolarmente sviluppata. Per esempio, di fronte a una critica o a un rifiuto, la persona che soffre di un disturbo borderline tende a reagire in maniera eccessiva, mostrando rabbia e aggressività incontenibili.

La paura dell´abbandono

Spesso, poi, le personalità borderline instaurano delle relazioni di tipo dipendente. Ciò che temono maggiormente è di essere abbandonate. L’abbandono, in effetti, è una evenienza che può spingerle addirittura verso atti di natura autolesionistica. Il tentativo di procurarsi un danno può essere dettato dalla disperazione evocata dall’abbandono. Ma non è raro che si tratti di azioni manipolative che che hanno lo scopo di attirare l’attenzione di chi non si vuole perdere. La manipolazione, del resto, è un’altra costante delle relazioni con le persone che soffrono di disturbo borderline. È una strategia messa in atto quando il partner o una persona significativa non rispondono ai bisogni espressi.

Le difficoltà interpersonali

Relazionari con una persona che soffre di questo disturbo, per tutti questi motivi, non è semplice. Anzi, è spesso fonte di preoccupazione e stress. Un rischio, inoltre, è quello di essere oggetto di una fastidiosa alternanza tra l’idealizzazione e la svalutazione. Spesso senza soluzione di continuità, un giorno si è messi in discussione. E il giorno dopo si può essere trattati come se si fosse la migliore delle persone. Accanto alla elevata instabilità interpersonale, le persone che soffrono di un disturbo borderline presentano problematiche di natura cognitiva e nell’immagine di sé.

Come si sente chi soffre di disturbo borderline


Concretamente, chi soffre di questo problema ha un´immagine di sé poco sviluppata e definita e sperimenta spesso sentimenti di vuoto. In genere, presenta un funzionamento di tipo “tutto o nulla” e la capacità di individuare obiettivi e fare dei progetti è compromessa. La persona, cioè, è volubile e può modificare le proprie convinzioni facilmente. Questo modo di essere contribuisce a rendere infruttuosi i progetti intrapresi e a cambiare frequentemente i propri obiettivi. L’incapacità di perseverare nel perseguire uno scopo e nel portare a termine i propri piani ha come conseguenza un frequente peggioramento dell’autostima. A questo si associano senso di colpa, vergogna e una critica eccessiva nei propri confronti.

Nei periodi di particolare stress possono essere riscontrati sintomi psicotici veri e propri. L’altro può essere vissuto come un nemico che ha cattive intenzioni. La persona può non riconoscere più sé stessa o il proprio mondo, avvertendo di essere prossima a un cambiamento catastrofico o di vivere in un contesto estraneo.

Le emozioni nel disturbo borderline

Il quadro del disturbo borderline si caratterizza inoltre per un´elevata disregolazione emotiva e comportamentale. Si passa da momenti di relativa calma a momenti di estrema instabilità caratterizzati dalla generale difficoltà a gestire le emozioni.

Inoltre le persone che soffrono di disturbo borderline sono incapaci di tollerare la frustrazione. Per questo motivo in condizioni stressanti possono mettere in atto comportamenti aggressivi. Trovando difficile prevedere le conseguenze delle proprie azioni, poi, si espongono con facilità a situazioni di rischio. Una ulteriore caratteristica è l’impulsività. Le persone con disturbo borderline di personalità possono ricorrere all’uso di sostanze, a condotte sessuali promiscue, a spendere il denaro in maniera poco oculata, ecc…

Quali trattamenti per il disturbo borderline?

Il disturbo borderline di personalità compromette il funzionamento relazionale, sociale e lavorativo della persona. È per questo importante richiedere un aiuto specialistico che possa integrare un intervento farmacologico e la psicoterapia. Solo in alcuni casi di particolare gravità, inoltre, potrebbe essere necessario il ricovero ospedaliero, intervento cui si ricorre nei momenti di crisi e di forte scompenso.
Il trattamento farmacologico può prevedere l´utilizzo di farmaci stabilizzanti dell´umore o di antipsicotici atipici. I farmaci possono facilitare anche il lavoro di psicoterapia, necessario per il raggiungimento di diversi obiettivi. Tra questi aumentare la finestra di tolleranza della persona rispetto alle frustrazioni e migliorare le abilità sociali. Ma anche aiutare la persona a essere consapevole dei meccanismi alla base dei comportamenti di rischio. E a supportarla nello sviluppo e nel mantenimento di un progetto di vita.
Importanti obiettivi terapeutici, inoltre, riguardano la possibilità di incrementare la consapevolezza su di sé e sul ruolo giocato nelle relazioni interpersonali ed intime. Ciò al fine di rendere meno problematica e conflittuale la sfera dei rapporti con l’altro.

Si è consapevoli della malattia?

Per concludere, si può ricordare che non sempre le persone che soffrono di disturbo borderline hanno consapevolezza dei propri problemi. Spesso infatti attribuisconoo le proprie difficoltà a chi le circonda. Non a caso, sono i familiari, il partner o gli amici a spingere la persona a rivolgersi a uno psicologo-psicoterapeuta. Sono loro spesso a riconoscere per primi la problematicità di alcuni comportamenti ed atteggiamenti del proprio caro. Purtroppo si tratta di tentativi che, in svariate circostanze, non raggiungono l’obiettivo sperato. Proprio per questo motivo, se pensate che qualcuno dei vostri cari possa soffrire di questo disturbo, potrebbe essere utile chiedere un consulto anche al fine di ricevere informazioni e consigli su come gestire al meglio la relazione ed indirizzare la persona ad un intervento di supporto appropriato.


Riferimenti bibliografici
American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th ed.). Arlington, VA: American Psychiatric Publishing.
Gunderson, J., Herpertz, S., Skodol, A. et al. (2018). Borderline personality disorder. Nat Rev Dis Primers, 4, 18029.

quando i figli se ne vanno

Quando i figli se ne vanno.

La sindrome del nido vuoto accompagna molte famiglie quando si trovano di fronte alla decisione dei figli di andare a vivere da soli. Cosa fare per trovare un nuovo equilibrio?

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Che cos’è la sindrome del nido vuoto?

Sul finire degli anni Sessanta, la sindrome del nido vuoto ha fatto capolino in una delle canzoni dei Beatles (She’s leaving home). Ed è diventata un tema di discussione nell’ambito della psicologia e di altre scienze umane.
Sebbene non si tratti di una condizione clinica in senso stretto, la sindrome del nido vuoto può manifestarsi con sintomi di una certa gravità. Si tratta di una sindrome ansioso-depressiva che colpisce i genitori. A soffrirne sono, soprattutto le madri, quando i figli decidono di lasciare la casa genitoriale per andare a vivere da soli.

Quando il figlio esce di casa

Avviene prima o poi si verifica in tutte le famiglie. Anche se questo momento si è spostato sempre più in là negli anni. Fino a qualche decennio fa, i giovani contraevano matrimonio alle soglie dell’età adulta. Anche perché riuscivano ad ottenere un lavoro in grado di assicurare autonomia già subito dopo la maggiore età. Negli ultimi tempi, sono numerosi i figli che vivono con i genitori fino ad oltre i 30 anni. Si tratta di un fenomeno diffuso che, probabilmente, rende ancora più doloroso il trasferimento di un figlio. E così i genitori possono sperimentare tristezza e preoccupazione molto intense.

In effetti, il trasferimento di un figlio può essere vissuto come un vero e proprio lutto. Che richiede ai genitori di mobilitare tutte le proprie risorse emotive per accettare l’allontanamento e continuare la propria vita senza eccessiva sofferenza. Ciò è tanto più probabile se l’allontanamento dalla casa genitoriale non è stato negoziato e accettato dai genitori. Oppure se questi stanno vivendo anche altri momenti di crisi. Per esempio la menopausa, il pensionamento, accudire i propri genitori anziani, possono aumentare il rischio di sviluppare forme di disagio.

Quali genitori soffrono maggiormente della dipartita del figlio?

Ad essere particolarmente esposti, inoltre, sono i genitori single. Questi possono sentire di perdere ogni ragione di vita, soprattutto se si sono dedicati in maniera quasi esclusiva al benessere del figlio. Ma anche le coppie caratterizzate da alta conflittualità. E nelle quali il figlio assume spesso il ruolo di mediatore della loro relazione.

Come si manifesta la sindrome del nido vuoto?

Quando i figli se ne vanno, vissuti di carattere ansioso possono riguardare l’incolumità del figlio. Questo avviene nonostante il genitore si renda conto che si tratti di una persona adulta e capace di pensare a sé stessa. Vissuti di tristezza intensa e depressione, invece, possono essere alimentati dalla percezione, spesso priva di fondamento, di aver perso per sempre il proprio figlio. Tali vissuti possono dipendere da fattori diversi. In primo luogo dalla personalità del genitore e dalle sue particolari modalità di reagire agli eventi critici.

Nel caso specifico della sindrome del nido vuoto, però, bisogna considerare anche la qualità della relazione di coppia e le risorse genitoriali. In alcuni casila vita familiare èstata costruita intorno al ruolo di genitori. Può essere molto difficile abituarsi a una situazione in cui la dimensione marito-moglie torna ad essere quella saliente.

Ogni famiglia attraversa diverse fasi del ciclo di vita familiare. E sia la nascita dei figli che il loro diventare adulti costituiscono delle tappe evolutive importanti che richiedono notevoli aggiustamenti. Accogliere un terzo nella coppia marito-moglie, per esempio, può non essere semplice, determinando tensioni e richiedendo aggiustamenti relazionali. Lo stesso può dirsi quando il figlio si allontana da casa. E i genitori devono ritrovare una dimensione a due che, spesso, mette a nudo e di fronte alle crepe del rapporto.

Diade, triade…e ancora diade!

Diversi problemi di coppia, in effetti, possono essere accantonati per il bene dei figli. Inoltre, occuparsi di loro può essere una buona strategia per non affrontare le difficoltà relazionali tra moglie e marito. L’uscita di casa del figlio, quindi, può mettere sotto un riflettore tutte le difficoltà che erano state accantonate.

Del resto, però quando i figli se ne vanno ritornare ad essere coppia può rappresentare anche una opportunità. Si può beneficiare di una ritrovata intimità. E riscoprire il valore di avere del tempo da investire nel proprio rapporto e nei propri interessi. Riavvivare la propria vita individuale e di coppia, anzi, potrebbe rappresentare una buona strategia di fronteggiamento dello stress da nido vuoto.

Cosa fare se il dolore per l’allontanamento del figlio è troppo?

In alcuni casi i vissuti ansiosi e depressivi conseguenti al trasferimento di un figlio possono essere difficili da gestire senza un aiuto professionale. Se le reazioni sperimentate sono del tutto assimilabili a un lutto e si protraggono nel tempo, è consigliabile rivolgersi a uno psicologo-psicoterapeuta.

La psicoterapia infatti, può mettere a fuoco le ragioni di una reazione disfunzionale rispetto ad un evento che fa parte del normale ciclo di vita di ogni famiglia.

Talvolta, per esempio, i genitori che sviluppano la sindrome del nido vuoto hanno vissuto esperienze negative connesse all’allontanamento di persone di riferimento o a loro care.

In simili casi, quando i figli se ne vanno l´evento è in grado di ri-attivare vissuti traumatici che può essere utile trattare in un percorso psicologico.

Psicoterapia sì o no?

Quando i figli se ne vanno, un percorso di psicoterapia potrebbe supportare la persona nell’attivazione di risorse di fronteggiamento dello stress. E favorire una riorganizzazione delle routine quotidiane e la maturazione della consapevolezza che il rapporto con il figlio può essere alimentato anche a distanza. Una simile consapevolezza potrebbe passare attraverso una focalizzazione su aspetti e ricordi positivi del figlio, provando ad alimentare la sua presenza interna.

Un percorso di supporto psicologico potrebbe essere utile anche per gestire problemi di coppia. Soprattutto quando il trasferimento di un figlio abbia scatenato una crisi relazionale.

In entrambi i casi intraprendere il percorso in maniera tempestiva permette di anticipare ed evitare il radicarsi di problemi più cronici. Problemi che, con un valido aiuto, possono rientrare in poco tempo. E migliorare sia la qualità delle relazioni intrafamiliari che il benessere soggettivo.

Riferimenti bibliografici
Piper, A., & Breckenridge-Jackson, I. (2017). She’s Leaving Home: A Large Sample Investigation of the Empty Nest Syndrome. Consultato su (PDF) She’s leaving home: a large sample investigation of the empty nest syndrome (researchgate.net)
Römer, F. (2013). Quando i figli crescono: una bussola per genitori alle prese con figli adulti. Milano: Apogeo.