Articoli
Ne parlo con un amico o con uno psicologo?
/in Psicologia clinica /da Giuseppe IannoneDavanti a una questione che ci assilla spesso parlare con qualcuno può aiutarci in diversi modi. Condividere il problema, sfogarsi, ricevere un consiglio (o a volte anche solo un abbraccio) aiuta a fare luce e ridare serenità. Ma in quali situazioni il consiglio di un amico non basta ed è meglio rivolgersi a uno psicologo? Qual è la differenza tra amico e psicologo?
Amico o Psicologo?
Se avessi la possibilità di parlare con uno psicoterapeuta o con un amico, forse la maggior parte di noi sceglierebbe di parlare con un amico. Come mai? Per diverse ragioni. Gli amici ci danno consigli che vogliamo sentire. Abbiamo l’impressione che i nostri amici si prendano cura di noi e vogliano il meglio per noi. E poi, parlare con un amico non costa nulla. Al massimo, quando avranno bisogno di te, gli restituirai il favore.
La psicoterapia, invece, ha lo scopo di aiutare le persone a comprendere e rimediare a un problema.
Le persone vanno in terapia per tutti i tipi di motivi. A volte per trattare un sintomo clinico, come ansia, panico, depressione, stress, ecc. Altre volte, invece per problemi relazionali, di coppia, sul lavoro, ecc.
Chi trova un amico trova un tesoro…
L’amicizia è un bene così prezioso e raro da essere equiparata a una persona che trova un tesoro! L’amicizia è un valore fondamentale capace di superare i confini spaziali, i legami di sangue, le stagioni della vita e di liberarci da tante paure. Ci capita sempre più spesso di sentire affermazioni tipo “ il cane è il miglior amico dell’uomo”. Personalmente questa frase mi fa venire i brividi. Il miglior amico dell’uomo è l’uomo. Troppo comodo un cane da comandare. Tutt’altra storia avere a che fare con esseri umani come noi. Giocarsela alla pari. Scendere dal piedistallo di voler comandare e farsi obbedire.
Qualcuno ha definito le amicizie la famiglia che ci scegliamo. Ed è davvero così. Infatti, se genitori, fratelli, sorelle, ecc. ci vengono dati senza che noi abbiamo possibilità di scelta. non è così per gli amici. Siamo noi a scegliere o a essere scelti e chiamati a un rapporto di amore, fiducia e rispetto reciproci.
Con un amico puoi condividere gioie e dolori, puoi confidarti, aprire il tuo cuore. Ma ci sono situazioni nelle quali il consiglio di un amico non ci basta. Perché?
… e chi trova uno psicologo?
Tante volte le persone arrivano in terapia portando una questione che li assilla e che sembra irrisolvibile. Le hanno provate tutte. Dall’autoanalisi della situazione, al confronto con un amico o con il partner. Ma nulla è servito a migliorare le cose. Diciamocelo: per alcune situazioni il consiglio di un amico non basta. Perché? Cos’ha lo psicologo che l’amico non ha?
Ci sono molte differenze tra il sostegno che può offrire un amico e la relazione terapeutica con lo psicologo. Vediamone assieme qualcuna.
- Lo psicoterapeuta (a differenza dell’amico) è un professionista della salute mentale autorizzato e formato per aiutare i propri pazienti a migliorare la propria vita, sviluppare le competenze necessarie per far fronte alle sfide e alle situazioni della vita. Lo psicoterapeuta, infatti, è stato specificamente formato (di solito un percorso di psicologia+psicoterapia dura almeno 10 anni!) nella scienza (e nell’arte) del comportamento umano, della conversazione, interpretazione, valutazione e trattamento sia di disturbi mentali che di questioni non cliniche (per esempio relazionali). Anche se spesso può sembrare una conversazione “casual”, il terapeuta sa porre domande durante la sessione per aiutarti a scoprire il significato e riflettere sulle esperienze di vita e su come queste hanno plasmato la tua situazione attuale. Può aiutarti a guardare come i tuoi pensieri, le tue emozioni e il tuo dialogo interiore contribuiscono a generare e mantenere la situazione problematica in atto. L’amico no.
- La terapia ha confini chiari. La psicoterapia si gioca in un setting clinico, sicuro, confidenziale, professionale, solidale ed empatico per esplorare gli aspetti di sé difficilmente valutabili in setting non clinici, come nelle amicizie o nelle altre relazioni personali. Infatti, incontrerai il tuo terapeuta a un’ora specifica e di solito nel suo ufficio online o in presenza. L’amico, invece, è reperibile (quasi) sempre.
- In terapia, il focus è su di te. In un’amicizia, sia tu che il tuo amico ascoltate i problemi l’uno dell’altro e vi supportate a vicenda. Nella relazione terapeutica, l’attenzione è esclusivamente su di te. Un terapeuta, a differenza di un amico, non parlerà mai dei propri problemi poiché il focus della relazione terapeutica è su di te.
- Lo psicoterapeuta è obiettivo. Poiché non ha una relazione personale con te (ma soltanto professionale), lo psicoterapeuta non è influenzato dai sentimenti personali. Ed è imparziale quando guarda alla tua situazione e ascolta la tua storia.
- La psicoterapia è un processo di dispiegamento della nostra saggezza intrinseca che spesso è intrappolata sotto strati di condizionamento o paura. I nostri amici spesso sono felici o tristi per noi ma in genere non si occupano di supportare la crescita e il cambiamento a lungo termine. Né, tantomeno, sono capaci di guarirci da sintomi o disturbi mentali. Non basta parlare con un amico per guarire dall’ansia, dal panico o dalla depressione. Sarebbe come dire, se ho l’appendicite o una gamba rotta ne parlo con un amico e guarirò.
Ricordo ancora come una mia paziente definì la psicoterapia online per curare i suoi attacchi di panico:
“E’ stata una delle esperienze più preziose della mia vita. Nei miei momenti di prova personale, la psicoterapia online è stato un porto sicuro, un luogo in cui ricevevo feedback, intuizioni e prospettive uniche da qualcuno che non mi conosceva ma che sapeva leggere dentro di me”.
Potremmo riassumere la differenza tra parlare con un terapeuta e un amico con questa analogia: lo psicoterapeuta è come un allenatore che dalla panchina osserva la tua vita. I tuoi amici, invece sono i tuoi compagni di squadra, che giocano con te e proprio per questo non hanno una prospettiva più ampia su quello che succede in campo. Entrambi i ruoli sono importanti ma le funzioni di ciascuno sono diverse.
Attacco di panico o attacco di solitudine?
/in Psicologia clinica /da Giuseppe IannoneLe teorie psicologiche classiche considerano l´attacco di panico come una risposta di paura intensa, esagerata, incontrollata e inappropriata. Secondo queste teorie la paura scaturirebbe dall´attivazione dell´amigdala e di altre aree cerebrali che regolano l´emozione della paura. Di conseguenza, gli approcci psicoterapeutici che prendono le mosse da questa teoria (specialmente la psicoterapia cognitivo comportamentale) hanno per obiettivo la riduzione dello stato di paura del paziente. Esercizi di desensibilizzazione, di esposizione, la disputa dei pensieri disfunzionali ecc., sono tra i principali compiti e tecniche che si offrono al paziente nel tentativo di ridurre la sintomatologia. Alcune teorie fenomenologichguardano invece a certe forme di attacco di panico come attacco di solitudine.
La brutta notizia
La brutta notizia, però, è che spesso tali interventi non danno risultati duraturi. Inoltre, sappiamo anche che i farmaci come le benzodiazepine hanno uno scarso effetto sull´incidenza del panico. Invece, gli SSRI (una classe di antidepressivi) sono considerati i farmaci di elezione per combattere il panico.
Una nuova teoria sul panico
La teoria fenomenologica offre una nuova visione sul concetto di panico. Secondo questa teoria, il panico non sarebbe tanto (o soltanto) un attacco di paura intensa, esagerata, incontrollata e inappropriata. Invece, il panico è l´esperienza che si fa quando ci troviamo esposti a situazioni che percepiamo come potenzialmente incontrollabili e contemporaneamente sentiamo di non avere nessuno su cui poter contare. Attacco di panico o attacco di solitudine, quindi?
A corroborare questa visione del panico concorrono alcuni dati provenienti dalla ricerca. Innanzitutto, uno dei sintomi del panico è la fame d´aria. Ebbene, la fame d´aria occorre raramente in situazioni di paura acuta, generata da un evento esterno. Inoltre, a differenza della paura, durante un attacco di panico non assistiamo all´attivazione del sistema HPA. Il sistema HPA regola la risposta allo stress. Questo sistema sembra essere addirittura inibito dal panico. La tachicardia e le altre forme di attivazione fisiologica durante un attacco di panico sono invece prodotte da una soppressione vagale (parasimpatica) piuttosto che da un´attivazione simpatica.
Inoltre, durante un attacco di panico, l´esperienza principale è quella di stare per morire o impazzire. La paura arriverebbe soltanto in un secondo momento. E riguarda, in genere, la preoccupazione che un attacco di panico possa ripetersi. Oppure che si abbia qualche malattia. O che si possa impazzire. Secondo questa visione, la paura sarebbe quindi secondaria e successiva all´attacco di panico (sicuramente almeno al primo attacco di panico, aggiungerei io). Infatti, è solo dopo il primo attacco di panico che la persona di solito inizia a vivere in uno stato di forte angoscia, ansia anticipatoria e sviluppa una paura dei sintomi del panico!
Panico e difficoltà a riconoscere le emozioni
Dopo il primo attacco di panico la persona di solito inizia un ossessiva quanto eccessiva autoosservazione. Perché? Per intercettare e controllare ogni minima variazione corporea che possa somigliare all´esperienza di panico. Ma così facendo, la persona non presta attenzione agli elementi contestuali nei quali i sintomi possono emergere. Non di rado chi soffre di panico soffra anche di alessitimia.
L´alessitimia (dal greco a- «mancanza», lexis «parola» e thymos «emozione» dunque: «mancanza di parole per [esprimere] emozioni») è un costrutto psicologico noto anche come analfabetismo emotivo che descrive una condizione di ridotta consapevolezza emotiva. L´alessitimia comporta l’incapacità sia di riconoscere sia di descrivere verbalmente i propri stati emotivi e quelli altrui. Le persone che soffrono di panico non sono né inclini né capaci di chiedere aiuto. Sono spesso diffidenti. Non sanno riconoscere ed esprimere le loro necessità affettive.
Non stupisce che il panico si manifesti proprio in situazioni in cui la persona sta attraversando un passaggio importante della sua vita. La laurea, il matrimonio, un trasloco, un cambio lavorativo, difficoltà relazionali o economiche, la morte di un caro, la fine (ma anche l´inizio!) di una relazione affettiva. Cos´hanno in comune queste situazioni? La persona si sente maggiormente esposta al mondo, un mondo nuovo, spesso sconosciuto, in cui il contesto relazionale non funge più da sponda per contenere la piena che sta per investire la vita della persona.
In poche parole, ci si sente soli in balìa del mondo. Proprio come un bambino che, al supermercato, improvvisamente si accorge di essersi perso e non trova più i suoi genitori.
Panico e agorafobia
L´agorafobia è forse la situazione che meglio incarna questa sensazione. La paura di trovarsi in spazi aperti diviene metafora del trovarsi esposti a un mondo senza la necessaria mediazione affettiva. Non stupisce, quindi, che chi soffre di panico e di agorafobia, abbia bisogno di una persona che stia con lui/lei proprio per non sentirsi soli in balìa del mondo.
Panico e claustrofobia
Anche il timore di sentirsi costretti in una situazione può elicitare un attacco di panico. Da un lato, come abbiamo visto, chi soffre di panico tende a ricercare la vicinanza e il contatto con l´altro per non sentirsi solo al mondo. Dall´altro, però, l´eccessiva vicinanza dell´altro viene vissuta come asfissiante. Una relazione che sta per sfociare in una convivenza o un matrimonio, le imposizioni sul lavoro, ecc. sono situazioni emblematiche nelle quali chi soffre di panico fatica a trovarsi.
Panico o ansia da separazione?
In virtù di quanto sopra esposto alcune correnti fenomenologiche, di stampo gestaltico, guardano al panico come a un sottotipo di ansia da separazione piuttosto che a una paura generica. Nello specifico, il panico viene considerato un attacco acuto di solitudine.
Panico, depersonalizzazione e derealizzazione
La depersonalizzazione e la derealizzazione sono sintomi dissociativi molto comuni in chi soffre di panico. Come dicevamo, chi soffre di questo disturbo tende a non riconoscere le proprie emozioni (né tantomeno i contesti nei quali queste si generano). Né a riconoscere la causa psicologica e sociale dei sintomi, ai quali invece imputa una causa somatica. Svuotata dalla componente psicologica, l´esperienza di separazione, caratterizzata da angoscia e smarrimento, assume le sembianze della depersonalizzazione e della derealizzazione. Le sembianze di un corpo-organismo che soffre, patisce e non di un corpo-vivo in una situazione “scomoda”. Esperienze traumatiche in età infantile sembrano giocare un ruolo nella manifestazione, in età adulta, di depersonalizzazione e derealizzazione.
Eterogeneità del panico e implicazioni cliniche per una buona psicoterapia
Il panico è un disturbo mentale complesso e multisfaccettato. È caratterizzato da un insieme di sintomi (ben 13!) che si combinano in maniera diversa in diversi individui. Non esiste e non può esistere una psicoterapia valida per ogni caso di panico (così come di nessun altro disturbo mentale). In primis perché comunque si ha davanti a sé, ogni volta, una persona diversa. In secundis perché la combinazione dei 13 sintomi del panico varia sia tra persone diverse che nella stessa persona.
La psicoterapia deve tener conto della specificità di ciascun caso e farsi personalizzata e cucita su misura su ciascun individuo. Attraverso la relazione terapeutica la persona che soffre di panico ricomincia a ritornare gradualmente in sintonia con i propri stati emotivi. E impara a riconoscere i contesti comodi da quelli scomodi. Uno dei miei scopi nella terapia del panico è permettere alla persona di accorgersi delle loro emozioni e necessità che spesso sono state misconosciute per troppo tempo. La relazione terapeutica infine può fungere da contesto che aiuta la persona a sì muoversi verso l’indipendenza e all´autonomia. Senza sentirsi sopraffatto dal mondo e senza dover necessariamente rinunciare all’altro.
Fumare aiuta a gestire l´ansia?
/in Psicologia clinica /da Giuseppe IannoneFumare aiuta a gestire l’ansia? I danni provocati dal fumo di sigaretta sono oramai noti. Il fumo fa aumentare la pressione arteriosa, accelera l’aterosclerosi, ostacolando la circolazione del sangue nei vasi e aumentando il rischio di infarto e ictus. I problemi circolatori causati dal fumo possono, a loro volta, determinare impotenza nell’uomo, declino mentale e invecchiamento precoce della pelle.
Tante persone fumano quando si sentono stressate o in ansia e riferiscono che fumare sia un metodo anti stress e anti ansia. Ma è davvero così?
Tutt´altro! La nicotina, infatti, non ha un´azione rilassante bensì attivante. Non c´è da stupirsi che il fumo di sigaretta aumenti il rischio di soffrire di disturbo di panico con o senza agorafobia.
Fumare crea affanno e un senso di debolezza. In chi è già ansioso questi sintomi possono esacerbare l’ansia. In chi già soffre di attacchi di panico, poi, l’oppressione fisica o pesantezza al petto può acuire il malessere o addirittura scatenare l’attacco.
Fumare aiuta a gestire l’ansia?
Sebbene la causa dell´associazione tra panico e fumo rimanga controversa, le principali spiegazioni sono le seguenti:
1️⃣ il fumo di sigaretta promuove il panico inducendo anomalie respiratorie, malattie polmonari o aumentando le sensazioni corporee potenzialmente causa di paura.
2️⃣ la nicotina produce effetti fisiologici caratteristici del panico rilasciando noradrenalina.
3️⃣ chi soffre dl disturbo di panico usa le sigarette come automedicazione.
4️⃣ una vulnerabilità condivisa promuove entrambe le condizioni.
Ma allora perché tante persone riferiscono di sentirsi meno stressate e meno in ansia dopo aver fumato?
Questo può succedere quando la persona ha una dipendenza dalla nicotina. Se non si fuma per un certo periodo di tempo, l´organismo inizia a reclamare nicotina perché va in uno stato di astinenza. Sarebbe quindi l´astinenza a manifestarsi con sintomi di ansia e stress. Ed è per questo motivo che, una volta fumato, i livelli di ansia e stress diminuirebbero sensibilmente. Ma questo ovviamente non significa che il fumo abbia proprietà anti ansia o anti stress.
È stato invece appurato che smettere di fumare giova a chi soffre sia di stress che di ansia .
La psicoterapia può aiutarti a smettere di fumare. Torna a respirare e dai un calcio al panico. Cervello, cuore e polmoni ti ringrazieranno.
Hai letto: fumare aiuta a gestire l’ansia?
È possibile guarire per sempre dal panico
/in Psicologia clinica /da Giuseppe IannoneE’ possibile guarire per sempre dal panico? Sì. Dal panico si guarisce. Gli esiti a breve termine del trattamento di questa invalidante psicopatologia sono tra le più grandi storie di successo della psichiatria. Solo 50 anni fa, gli attacchi di panico ricorrenti erano considerati una condizione altamente resistente al trattamento. Ma oggi, i trattamenti psicoterapici e farmacologici per il disturbo di panico sono tra gli interventi più efficaci in psichiatria.
Il rischio di ricaduta nell´ansia e nel panico
Molti pazienti che soffrono di un disturbo d´ansia non rispondono ai trattamenti e i tassi di recidiva sono davvero alti. Uno studio sulla depressione e l’ansia condotto nei Paesi Bassi ha evidenziato che dopo 2 anni, più di una persona su cinque aveva sperimentato una ricaduta. I tassi di recidiva su un periodo di 12 anni sono ancora più alti: 56% per il disturbo di panico senza agorafobia, 39% per la fobia sociale e il 45% per il disturbo d’ansia generalizzato.
Si è quindi condannati a convivere per sempre con l´ansia e il panico?
No! E’ possibile guarire per sempre dal panico. E dall’ansia. Però non dobbiamo confondere l´ansia fisiologica da quella patologica. La prima, in quanto emozione, continuerà a manifestarsi in diversi momenti della nostra esistenza. E questo non deve farci preoccupare. Viceversa, l´ansia come psicopatologia può essere curata efficacemente attraverso un percorso di psicoterapia che sappia intercettare sia la dinamica temporale dei sintomi sia i contesti nei quali i sintomi di ansia e panico emergono.
Uno dei problemi principali per chi soffre di ansia e panico è che spesso la persona non riesce a capire da dove emerga la sofferenza. Questo succede in parte perché la persona resta “ipnotizzata” dai sintomi stessi e si ripiega eccessivamente su cosa succede nel proprio corpo. Ma così facendo tende a non prendere in considerazione i contesti o le situazioni esistenziali che fanno da cornice all´emergere e al manifestarsi dei sintomi.
Il racconto dei pazienti che seguo per un problema di ansia o panico è spesso incentrato su cosa succede nei loro corpi. I sintomi fisici del panico, come la fame d´aria, la tachicardia, le vertigini, vengono descritti con meticolosità. La stessa cosa succede con i sintomi cognitivi del panico: la sensazione di irrealtà, di distacco dal corpo, la paura di morire o di impazzire sono ben presenti nella memoria di chi ne soffre.
Ciò che viene narcotizzato nel racconto dei miei pazienti è, invece, il contesto nei quali questi sintomi emergono. Come ti sei sentito in quella situazione? Che emozioni hai provato quando hai appreso quella notizia? Ecco, molto spesso a queste domande i miei pazienti restano muti. Al massimo ritornano sul racconto di cosa sia successo nel loro corpo. Ma in chi soffre di ansia e panico l´esperienza emotiva sembra non essere accessibile.
Come risolvere il problema?
Uno strumento che utilizzo con successo nella cura di ansia e panico è il diario. Dopo le prime sedute di approfondimento diagnostico chiedo sempre ai miei pazienti di tenere un diario di bordo. Chiedo loro di annotare tutte le situazioni che sono in grado di attivare, positivamente o negativamente, la persona da un punto di vista emotivo. Chiedo anche di provare a descrivere assieme ai sintomi fisici dell´ansia o del panico, manche come ci si sente emotivamente nelle diverse situazioni durante la giornata.
Con il passare del tempo, le persone prendono confidenza con lo strumento e iniziano a fornire resoconti sempre più dettagliati delle emozioni che provano nei contesti che abitano. È allora che avviene il “miracolo”. I sintomi fisici e cognitivi che prima sembravano muti e arrivare da chissà dove iniziano a essere sempre più prevedibili. La persona finalmente riesce a dare un senso alla propria sofferenza. Adesso comprende che quel cuore che batte all´impazzata, della sensazione di stare per soffocare, della vertigine o del capogiro sono modi di essere emotivamente situati a seconda delle situazioni nelle quali si trovano.
Guarire dal panico… Correva l´anno 1942 quando Gordon Allport chiamò i ricercatori a utilizzare metodi e strumenti nelle scienze psicologiche che potessero misurare l´esperienza viva del paziente, affermando: “La conoscenza dei particolari è l’inizio di ogni conoscenza… la psicologia ha bisogno di occuparsi della vita così com’è vissuta”. In questo senso il diario è uno strumento che mira a rispondere a questo invito, favorendo la raccolta di dati nella vita quotidiana, spesso utilizzando misurazioni ripetute dei dati in tempo reale in situazioni autentiche e naturali.
Un diario contro il panico
Il diario può essere compilato attraverso una varietà di metodi . Può essere cartaceo ma si possono utilizzare anche applicazioni per smartphone o le note del nostro cellulare. Può prevedere un campionamento temporale casuale (ad es. i dati vengono raccolti in momenti casuali nel corso di
un giorno) o, cosa che preferisco, il campionamento può essere basato sugli eventi (cioè i dati registrati quando una certa condizione è soddisfatta, come in un soggetto che sta vivendo un attacco di panico).
Tuttavia, la caratteristica principale dei dati raccolti attraverso il diario è che mirano a “catturare la vita così com’è vissuta”. In tal modo è possibile fornire racconti dettagliati ed ecologicamente validi che diventano materiale prezioso durante le sedute di psicoterapia.
L´utilizzo del diario riduce al minimo il rischio di fornire dati poco corretti sull´esperienza fatta. La memoria spesso ci inganna infatti ed è influenzata anche dallo stato emotivo presente. In secondo luogo, l´utilizzo del diario riduce al minimo la selettività quando si descrive l´esperienza.
Infine, i dati trascritti nel diario forniscono informazioni minori che non sarebbero accessibili utilizzando approcci metodologici tradizionali (come il racconto orale di cosa sia successo nelle ultime due settimane). Nel diario vengono invece registrate informazioni preziose sui processi mentre si svolgono. Ad esempio, l’aumento e la diminuzione dell’ansia durante il giorno, comportamenti di evitamento, eccetera.
E’possibile guarire per sempre dal panico? Sì!
Nelle nostre sedute di psicoterapia ti insegnerò a scrivere un diario per aiutarti a riconoscere le situazioni e i contesti nei quali è probabile che emergano sintomi di ansia e panico. Sarà un´abilità che ti tornerà utilissima anche quando la terapia sarà conclusa perché sarai in grado, in autonomia, di monitorare e riconoscere le tue emozioni nei diversi contesti. Chiamami oggi per fissare un appuntamento. Ed esci dalla spirale di ansia e panico.
Mobbing: cosa fare?
/in Psicologia clinica /da Giuseppe IannoneQuando il posto di lavoro diventa un incubo. Il mobbing
Il mobbing è un fenomeno che riguarda i contesti di lavoro in cui comportamenti aggressivi e vessatori vengono esercitati contro qualcuno da parte di colleghi o superiori. Cosa fare per proteggersi da questa forma di stress psicosociale?
Che cos’è il mobbing?
La parola mobbing viene dal verbo inglese “to mob” che significa “aggredire”, “attaccare in gruppo”, “accerchiare”. Questa parola è stata utilizzata dall’etologo K. Lorenz per descrivere il comportamento delle specie animali in cui alcuni membri si coalizzano contro uno di loro. In questi casi, il gruppo può isolare, attaccare, escludere un membro fino a portarlo alla morte. Nella lingua inglese, inoltre, il verbo to mob indica l’atteggiamento dei cani nella caccia alla volpe.
In italiano, invece, è usato per indicare una forma di stress psicosociale caratteristica di alcuni ambienti di lavoro. Il mobbing è fonte di sofferenza importante per chi lo subisce.
Il mobbing, infatti, è una tipologia di violenza il cui fine ultimo è l’esclusione o l´emarginazione, reali o simboliche, della vittima dal contesto lavorativo.
È H. Leymann che lo descrive in questi termini a metà degli anni Ottanta. E che lo definisce come una modalità di comunicazione ostile ed immorale. In caso di mobbing, una o più persone manifestano aggressività e/o ostilità verso un altro individuo che potrebbe difficilmente trovare dei mezzi per difendersi. La persona che subisce le vessazioni da parte di colleghi, superiori o subalterni, è il lavoratore mobbizzato. Chi esercita violenza, invece, viene denominato “mobber”.
Se atti vessatori e violenze vengono messi in atto dal proprio superiore diretto o dai vertici dell’organizzazione, si può parlare di bossing.
Il mobbing orizzontale, invece, si verifica quando mobber e mobbizzato sono colleghi di pari grado. Se il mobber è un superiore o un collega di grado inferiore, si parla di mobbing verticale.
Come si manifesta il mobbing?
Si può parlare di mobbing ogni volta che sul contesto di lavoro si verificano comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti e sistematici contro una persona. Il carattere sistematico e ripetuto è fondamentale perché si possa parlare di mobbing.
Lo psicologo italiano H. Ege, per esempio, lo definisce come una forma di terrore psicologico che si deve protrarre per almeno sei mesi. Altri autori, in aggiunta, specificano che gli attacchi devono ripetersi almeno una volta a settimana.
Il mobbing, quindi, è una strategia di attacco ripetuto nel tempo che ha una finalità chiaramente persecutoria. Sulla persona mobbizzata viene esercitata una vera e propria violenza morale che può assumere diverse forme.
Quali sono le principali forme di mobbing?
Diffuse, per esempio, sono le pressioni psicologiche e le molestie, la calunnia, le offese personali, le minacce e le critiche. Maltrattamenti e forme eccessive di controllo possono esasperare il lavoratore e non sono esclusi atti vessatori indirizzati al privato del lavoratore, spesso relativi a variabili di genere, religione, razza. Sul piano lavorativo in senso stretto, inoltre, il mobbing si esprime attraverso lo svuotamento delle mansioni o l’attribuzione di compiti eccessivi. Talvolta, poi, può essere presente l’assegnazione di compiti dequalificanti. Elementi comuni, infine, sono l’esclusione dalle informazioni utili alle attività lavorative, l’estromissione dalle iniziative formative, l’impossibilità di accedere a mezzi e strumenti necessari.
Quando non è possibile parlare di mobbing?
Come è evidente, il mobbing si può esprimere attraverso una serie diversificata di azioni e comportamenti.
Affinché si possa parlare di mobbing, però, gli atti violenti e vessatori devono ripetersi sistematicamente nel tempo. Per questo motivo, non si può parlare di mobbing nel caso di una singola azione contro un lavoratore.
Il fenomeno del mobbing, inoltre, non si esprime attraverso i fenomeni di conflitto diffuso che coinvolgono fasce ampie di lavoratori in una stessa azienda. Simili situazioni di conflitto, spesso dovute a cambiamenti organizzativi, rientrano più che altro nel fenomeno dello stress lavoro-correlato.
Il mobbing, inoltre, non deve essere considerato un problema della persona o una sua malattia. Si tratta, infatti, di un problema dell’ambiente di lavoro che, però, può essere all’origine di disturbi psicofisici importanti.
In aggiunta, non è un fenomeno che si manifesta in ambienti diversi da quelli lavorativi, per esempio in ambito scolastico o familiare.
Infine, non si tratta di una molestia di carattere sessuale sul posto di lavoro. In alcuni casi il mobber può aggredire sessualmente la vittima o colpirla attraverso la calunnia ed altri atti vessatori in relazione alla sfera sessuale. La finalità, però, non è mai quella di ottenere prestazioni sessuali, quanto di umiliare, colpire o isolare la vittima.
Quali sono le conseguenze del mobbing?
Il mobbing può avere delle conseguenze negative sulla salute fisica e psicologica della persona. Chi è oggetto di atti vessatori ripetuti nel contesto di lavoro, infatti, può sviluppare ansia, depressione, problemi psicosomatici quali disturbi gastro-intestinali, dermatiti, dolori osteo-articolari. Nei casi più seri, inoltre, non è escluso che la persona possa sviluppare delle vere e proprie sindromi da stress.
A lungo andare, infatti, le situazioni di mobbing configurano una condizione di stress cronico che danneggia la salute.
Può essere interessante sottolineare che il mobbing può avere un impatto anche sulle relazioni familiari del mobbizzato. Se il mobbizzato condivide le sue difficoltà in famiglia può essere all’inizio compreso e sostenuto. In simili situazioni, però, può svilupparsi anche un distacco da parte dei familiari che produce ulteriore solitudine. È in questi casi che si parla di doppio mobbing. La famiglia, infatti, diventa un contesto rifiutante ed escludente come quello lavorativo.
Cosa fare in caso di mobbing?
Se pensate di essere vittima di mobbing, può essere molto importante rivolgersi a un professionista della salute mentale. L’intervento psicologico, infatti, oltre a fare chiarezza sulla effettiva presenza di fenomeni di mobbing sul posto di lavoro, può essere importanti in termini di supporto.
In questi casi, infatti, è fondamentale condividere l’esperienza con un esperto che possa aiutare nel potenziamento della risposta allo stress. Ciò comporta l’attivazione delle proprie risorse di coping e l’elaborazione di possibili vissuti disturbanti.
Non bisogna dimenticare, infine, che il mobbing può essere denunciato. Se è possibile ricorrere a vie legali al fine di interrompere atti vessatori e violenze, può essere necessaria la valutazione dei danni psicologici da mobbing. Una simile operazione si rende necessaria in caso di procedimenti giudiziari volti ad accertare le responsabilità negli atti vessatori.
Riferimenti bibliografici
Ege, H. (2005). Oltre il mobbing. Straining, stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro. Milano: FrancoAngeli.
Ansia, stress e gastrite
/in Psicologia clinica /da Giuseppe IannoneMolte persone soffrono di disturbi gastrici che si acuiscono in momenti di particolare ansia e stress. Cosa sappiamo delle relazioni tra psiche e pancia? Cosa ci dicono i disturbi gastrici sul nostro stato psicologico ed emotivo? Che cos’è la gastrite? La gastrite è un’infiammazione che coinvolge le mucose gastriche, interessando le pareti interne dello stomaco. […]
Perché non riesco a buttare via niente?
/in Psicologia clinica /da Giuseppe IannoneL’accumulo compulsivo. Perché non riesco a buttare via niente?
Accumulare oggetti e non riuscire a liberarsene quando sono inutili o privi di valore può essere un importante disturbo psicologico. Quali sono i sintomi, le cause e i trattamenti della disposofobia?
Che cosa si intende per disposofobia?
Il disturbo da accumulo accomuna tutte le situazioni in cui la persona raccoglie compulsivamente oggetti di cui non riesce a liberarsi. L’impossibilità di disfarsi di cose inutili e prive di valore economico o affettivo si verifica nonostante l’accumulo limiti l’uso e la funzionalità degli spazi domestici. Questo disturbo è anche chiamato disposofobia o, in inglese, hoarding disorder.
Si tratta di una problematica ereditaria e circa il 50% degli individui che soffrono di accumulo hanno dei familiari che presentano lo stesso comportamento disfunzionale.
A che età si inizia a soffrire di disposofobia?
Il disturbo esordisce in genere nella prima età adulta, talvolta anche in adolescenza. Con il trascorrere del tempo, il disturbo tende a peggiorare rendendo scadente la qualità di vita della persona. La disposofobia, infatti, tende a cronicizzarsi. Nella stragrande maggioranza dei casi, la disposofobia si associa alla compromissione della vita lavorativa, riducendo le possibilità di cura di sé. Ciò avviene soprattutto nelle condizioni in cui chi soffre di accumulo compulsivo non ha consapevolezza di malattia. La persona, cioè, non ritiene di avere un problema psicologico.
Non è raro, poi, che la disposofobia si associ a problematiche di salute che, spesso, dipendono dalle pessime condizioni abitative.
La casa e gli animali domestici
L’accumulo di oggetti negli spazi domestici limita le possibilità di movimento all’interno della casa e può compromettere attività quali cucinare, occuparsi dell’igiene personale e dormire. Particolarmente difficile è la pulizia e la manutenzione di spazi e arredi, causa di frequenti problemi igienico-sanitari.
Ciò è particolarmente probabile nelle situazioni in cui l’accumulo riguarda animali domestici, caso che rappresenta una manifestazione particolare del disturbo. Non sono pochi, infatti, gli accumulatori di animali, spesso segnalati alle autorità per maltrattamento. L’accumulo di animali si accompagna in genere a un loro accudimento carente dal punto di vista alimentare o veterinario. Inoltre, la presenza di molti animali in spazi limitati peggiora le condizioni ambientali a causa di rumori molesti o cattivi odori. Sono soprattutto le condizioni estreme di questo genere ad alimentare tensione e conflitti con familiari e vicini e non è rara l’attivazione delle autorità e dei servizi sociali.
Quando è possibile diagnosticare la disposofobia?
Il DSM 5 (2013) ha inserito la disposofobia all’interno della categoria delle problematiche correlate al disturbo ossessivo-compulsivo.
Al fine di poter diagnosticare il disturbo da accumulo, secondo il manuale, devono essere soddisfatti alcuni criteri.
Deve intanto essere rilevata una persistente difficoltà a buttare o a separarsi dai propri beni, a prescindere dal valore che essi hanno. La difficoltà a gettare gli oggetti è dettata dal disagio associato a disfarsene ed alla percezione di un bisogno di custodirli. La difficoltà nel disfarsi dei beni superflui, inoltre, congestiona gli spazi vitali della persona. Ciò rende difficile una corretta fruizione degli ambienti che, spesso, tornano ad essere agibili solo attraverso l’intervento di altri soggetti. L’accumulo causa disagio clinicamente significativo o compromette il funzionamento socio-lavorativo della persona. Infine, il DSM raccomanda anche di escludere possibili cause alternative capaci di giustificare i comportamenti da accumulo. Un comportamento disfunzionale di questo genere, infatti, potrebbe essere dovuto a un altro disturbo mentale o a problematiche mediche. Tra queste ultime, per esempio, la disposofobia potrebbe essere spiegata anche con un trauma cranico o un disturbo cerebrovascolare.
Quali interventi per la disposofobia?
L´accumulo compulsivo può comportare un livello di disagio significativo alla persona che ne soffre. In genere, chi sperimenta malessere rispetto all’accumulo e lo riconosce come un problema ha maggiori probabilità di rivolgersi a un professionista della salute mentale.
Questa è una eventualità rara per chi, invece, non ritiene che il comportamento di accumulo sia problematico o rappresenti un indicatore di un disturbo mentale. In queste situazioni si può arrivare all’attenzione del clinico perché costretti dai servizi o da familiari e amici. Nel primo caso, le autorità possono attivarsi perché i comportamenti di accumulo possono causare problemi igienici e di sicurezza per sé e per gli altri. Nel secondo, familiari ed amici di persone con disposofobia possono sperimentare disagio e conflittualità che li spingono a porre un aut-aut ai propri cari.
Laddove non ci sia consapevolezza di malattia, quindi, è importante aiutare la persona a rendersi conto di avere un problema. Si tratta di una operazione non semplice, ma occuparsi dell’accumulo quando comincia a manifestarsi, massimizza le possibilità di risolverlo in maniera efficace. Simili informazioni dovrebbero essere fornite alla persona con problema di accumulo compulsivo al fine di convincerla a richiedere un aiuto specialistico.
La psicoterapia per la disposofobia
Un intervento di psicoterapia può essere importante per scongiurare conseguenze negative sulla propria salute e problemi con la propria rete di vicinato o la giustizia. A monte, la psicoterapia è fondamentale per recuperare una buona qualità della vita, anche considerando che la disposofobia si accompagna spesso ad altre problematiche psicologiche.
Circa il 75% delle persone con comportamenti da accumulo patologico presenta anche un disturbo d’ansia o depressivo. Circa il 20% manifesta i sintomi di un disturbo ossessivo-compulsivo. In molti casi, poi, i pazienti che soffrono di disposofobia hanno riferito di aver vissuto esperienze traumatiche prima dell’esordio del problema di accumulo. Nel complesso, si tratta di condizioni psicopatologiche che richiedono una adeguata presa in carico, talvolta anche di natura farmacologica.
La luce in fondo al tunnel
Per tutti questi motivi, rivolgersi a uno psicoterapeuta rappresenta il primo passo da compiere al fine di risolvere le problematiche di accumulo patologico. Anche laddove la persona che soffre di disposofobia preferisca non rivolgersi a un professionista della salute mentale, amici o familiari potrebbero valutare l’opzione di farlo per se stessi. Attraverso il confronto professionale con un esperto, infatti, si potranno ottenere informazioni sul disturbo da accumulo. Si tratta di un primo passo per migliorare la qualità delle relazioni con la persona che soffre di disposofobia e diminuire il conflitto. Con lo psicologo, inoltre, potranno essere vagliate le migliori strategie per rendere consapevole di malattia la persona che non riconosce di avere un problema con l’accumulo.
Riferimenti bibliografici
American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th ed.). Arlington, VA: American Psychiatric Publishing.
Frost, R. O., & Steketee, G. (2012). Tengo tutto: perché non si riesce a buttare via niente. Edizioni Erickson.
Ipocondria e paura delle malattie
/in Psicologia clinica /da Giuseppe IannoneMolte persone sperimentano una forte angoscia rispetto alla possibilità di ammalarsi. Ipocondria e paura delle malattie stanno diventando sempre più comuni, soprattutto in tempi di pandemia. Ma quando è possibile parlare di un vero e proprio disturbo di ansia da malattia?
Che cosa è il disturbo da ansia di malattia?
Nella quinta edizione del manuale diagnostico-statistico dell’American Psychiatric Association (APA, 2013) sono descritti i criteri per la diagnosi del disturbo da ansia di malattia. Si tratta di una condizione in cui la persona sperimenta una marcata ansia rispetto alla possibilità di essere ammalato o di potersi ammalare in futuro.
Questo disturbo, attualmente inserito nella categoria diagnostica dei disturbi da sintomi somatici e disturbi correlati, era in precedenza indicato con il nome di ipocondria. Con il passare del tempo, in effetti, è stata avvertita la necessità di cambiare la denominazione di una problematica che si accompagnava a una certa stigmatizzazione.
Nel linguaggio comune, essere ipocondriaci è sinonimo di essere malati immaginari. Persone che si lamentano con familiari e amici del proprio malessere, sommergendo i medici di richieste di cura inappropriate. E che sperimentano un’angoscia spesso incontenibile e che non risponde alle rassicurazioni.
Si tratta di una rappresentazione solo parziale della condizione di chi soffre di una forte ansia di malattia.
Quando la preoccupazione per la propria salute non trova possibilità di contenimento le persone che soffrono di ipocondria si rivolgono spesso a medici e servizi sanitari. Ma questo comportamento che non produce alcun sollievo. Del resto, non tutte le persone che vivono con l’ansia di ammalarsi si rivolgono al medico.
Talvolta, l’ansia può essere così forte da spingere la persona ad evitare di sottoporsi ad esami e visite. Il solo pensare a situazioni di questo tipo, infatti, può far crescere l’angoscia di essere ammalati a dismisura. E tradursi in un comportamento di evitamento che può avere anche serie conseguenze fisiche. Basti pensare a quanto può essere importante attuare adeguati comportamenti di prevenzione per mantenere un buono stato di salute.
Quando è possibile diagnosticare il disturbo di ansia da malattia?
Secondo il DSM 5 (2013), è possibile diagnosticare il disturbo da ansia di malattia in tutte le situazioni in cui la persona sperimenta la preoccupazione di avere o di poter contrarre una malattia. Una simile preoccupazione può essere riscontrata alla presenza di sintomi somatici di lieve intensità. Ma anche quando non è presente nessun sintomo.
Inoltre, nelle condizioni di rischio per lo sviluppo di determinate patologie, la preoccupazione per questa eventualità risulta comunque sproporzionata. L’ansia di ammalarsi è quindi elevata e la persona vive una condizione di allarme costante rispetto alla propria salute. Alla salute viene dedicata una grande attenzione, anche attraverso comportamenti correlati quali il cercare informazioni su sintomi e malattie.
Dr. Google? No, grazie.
La ricerca di informazioni può avvenire tramite internet e, spesso, ha come conseguenza quella di provocare ancora maggiore ansia. La rete, infatti, non può sostituire le valutazioni del medico e gli articoli di carattere divulgativo possono attivare angosce ancora più marcate.
Tornando ai criteri, il manuale precisa che si deve determinare una condizione in cui si rileva un disagio clinicamente significativo e il funzionamento sociale o lavorativo possono risultare compromessi. Queste manifestazioni, infine, dovrebbero durare da almeno sei mesi.
Quali sono le cause del disturbo da ansia di malattia?
Come per la maggior parte dei disturbi che comportano disagio psicologico, anche il disturbo da ansia di malattia non ha una sola causa. Piuttosto è il risultato dell’interazione tra più fattori di natura differente. Genetica, ambientale, fisiologica, sociale.
Diverse ricerche, per esempio, hanno dimostrato che alcuni circuiti neurochimici possono essere deficitari nei disturbi d’ansia. Questa caratteristica sembrerebbe spiegare anche una certa familiarità di queste problematiche. Avere un familiare che soffre di un disturbo d’ansia o di altre forme di disagio psichico, però, non comporta necessariamente il fatto di soffrirne a propria volta. Molto dipende anche dalle esperienze di vita e dalle modalità che ciascuno di noi ha sviluppato per rispondere agli eventi stressanti. Queste modalità, del resto, sono state apprese in famiglia e nel rapporto con i pari. Questo elemento spiega come a essere rilevante non sia solo l’ereditarietà.
Ma anche l’apprendimento sociale per osservazione ed imitazione. In tal senso, uno stile genitoriale ansioso o l’aver avuto dei familiari preoccupati della propria salute, possono essere dei fattori in grado di favorire l’insorgenza di un disturbo da ansia di malattia. Chi cresce con genitori ansiosi, infatti, ha maggiori probabilità di vivere il mondo come pericoloso e, se le paure genitoriali hanno riguardato la malattia, non è raro che anche i figli crescano con la paura di ammalarsi.
Lo sviluppo di questo disturbo, inoltre, si verifica spesso nelle persone che hanno vissuto una esperienza di grave malattia a carico di parenti ed altri cari, testimoniando il ruolo dei fattori ambientali.
Cosa fare se si soffre del disturbo da ansia di malattia?
L’ansia di malattia, come anticipato, può essere talmente forte da interferire con le attività della vita quotidiana. La tendenza a ricorrere a frequenti esami diagnostici e visite mediche ha un impatto sulla qualità della vita e delle relazioni, rappresentando un costo per il sistema sanitario.
Nelle situazioni in cui è presente evitamento di accertamenti ed esami, invece, il principale problema è che l’ansia di malattia si traduce in una scarsa possibilità di dedicarsi a delle sane attività preventive. Per tutte queste ragioni, chi soffre di un disturbo da ansia di malattia dovrebbe rivolgersi a un professionista della salute mentale al fine di superare l’angoscia connessa all’ammalarsi.
Nello specifico, un lavoro psicologico può aiutare ad avere informazioni su questo tipo di disturbo. E supportare la persona nell’individuazione di migliori strategie per affrontare le proprie angosce. Nel lavoro psicoterapeutico, infatti, la persona può entrare in contatto con le proprie paure e comprendere le ragioni dell ansia di malattia. Può anche apprendere a controllare meglio i propri comportamenti di richiesta di assistenza medica o di ricerca di informazioni. E a sviluppare progressivamente un atteggiamento nei confronti delle malattie più sereno.
Riferimenti bibliografici
American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th ed.). Arlington, VA: American Psychiatric Publishing.
Come si cura la somatizzazione?
/in Psicologia clinica /da Giuseppe IannoneQuando il malessere psicologico si esprime attraverso il corpo. Il disturbo da sintomi somatici.
Che la nostra mente e il nostro corpo non siano due entità separate è ormai noto. Ma la sofferenza psicologica può tradursi in dolore ed altri sintomi fisici? Come si cura la somatizzazione?
Qual è il rapporto tra mente e corpo?
Nella medicina occidentale siamo abituati a pensare mente e corpo come due entità separate. Solo recentemente gli studi sullo stress e una migliore conoscenza del sistema nervoso e di quello immunitario hanno permesso di riconsiderare la questione. L’OMS ha definito la salute come un completo stato di benessere bio-psico-sociale e non semplice assenza di malattia. E le evidenze neuroscientifiche più recenti mostrano che corpo e psiche sono strettamente interconnessi. E che non ha senso di parlare di una psiche separata dal corpo. Non deve quindi sorprendere che, talvolta, il malessere e il disagio psicologico possano tradursi in sintomi fisici quali dolore, squilibri ormonali o altre alterazioni somatiche.
I disturbi somatici
Il DSM 5 (APA, 2013), manuale di riferimento per la diagnosi dei disturbi psichiatrici, dedica un´intera sezione ai disturbi da sintomi somatici e alle altre condizioni correlate. Si tratta di problematiche in cui risulta essere centrale la presenza di sintomi fisici non ascrivibili a cause organiche.
In questa sezione del manuale troviamo quello che in precedenza era chiamato disturbo somatoforme, il disturbo da ansia di malattia, il disturbo da conversione e altre condizioni similari. Si tratta di condizioni in cui il malessere fisico o la presenza di sintomi sono centrali. In tali situazioni la persona sperimenta angoscia per le sue problematiche di salute e, per questo, può richiedere l’accesso ai servizi sanitari e impegnarsi in percorsi lunghi e frequenti di diagnosi medica.
Quando è possibile diagnosticare il disturbo da sintomi somatici?
Il disturbo da sintomi somatici si caratterizza per la presenza di uno o più sintomi fisici. Rispetto ai sintomi manifestati, la persona presenta un livello costantemente elevato di ansia per la propria condizione di salute. Può dedicare tempo ed energie eccessivi per le proprie preoccupazioni circa la condizione fisica. Oppure essere impegnata in pensieri persistenti sulla possibile gravità del proprio stato. La persona, infine, può essere assorbita dalla ricerca di informazioni relative al proprio malessere, anche attraverso internet, e può richiedere continue rassicurazioni al proprio medico. Ance se lievi, i sintomi provocano disagio clinicamente significativo e comportano una compromissione del funzionamento sociale e lavorativo della persona.
Il corpo al microscopio
Il corpo è continuamente sotto una lente di ingrandimento alla ricerca di sintomi e indicatori di patologia. Molto spesso, la persona non riesce a leggere con accuratezza i segnali inviati dal proprio corpo. Per esempio, normali sensazioni fisiche vengono confuse con sintomi di gravi disturbi. E la preoccupazione e la focalizzazione eccessiva sul proprio stato fisico alimentano l’ansia di essere ammalati. Affinché possa essere posta la diagnosi di disturbo da sintomi somatici, le manifestazioni del disturbo dovrebbero perdurare per almeno sei mesi.
Quali sono i sintomi fisici più ricorrenti?
Rispetto ai sintomi fisici che possono manifestarsi riscontriamo un’ampia variabilità. Alcune persone sperimentano una sintomatologia dolorosa. Altre possono sentirsi stanche o manifestare delle alterazioni a carico di diversi distretti corporei. Nei bambini, spesso, viene riferito mal di pancia, mal di testa, spossatezza o nausea.
Nella loro differenza, si tratta di sintomi che il medico difficilmente può ricondurre a problemi chiaramente definibili. Nonostante ripetuti esami e consulenze specialistiche non si avviene a una diagnosi definita. E la preoccupazione, la frustrazione, l´ansia e l´angoscia aumentano. Si dice che la diagnosi rassicuri. Così come una diagnosi che non arriva, può innescare molte paure. Di avere una patologia rara o così grave da non essere riconosciuta dal medico. O di non essersi affidati a un bravo professionista.
Come si cura la somatizzazione?
Soprattutto quando accertamenti medici abbiano escluso la possibilità di avere una malattia fisica, può essere importante individuare un professionista della salute mentale che possa aiutare a risolvere le proprie problematiche.
Una delle principali difficoltà sperimentate da chi soffre di questo disturbo consiste proprio nel comprendere il legame tra la sofferenza psicologica e il fatto di avere dei disturbi fisici. In parte ciò è il risultato di un approccio culturalmente consolidato alla malattia ed all’intervento medico che rende difficile pensare la mente e il corpo come una unità. Inoltre, rivolgersi allo psicologo può essere difficile a causa della stigmatizzazione. Per molte persone, ancora, la sofferenza psicologica e quella fisica continuano ad essere poste su due piani diversi. Come se il malessere psicologico fosse così tanto poco importante da non meritare la comprensione dell’altro o un adeguato percorso di presa in carico. Infine, non è raro che una persona che soffra di un malessere fisico non diagnosticabile venga etichettata come “malato immaginario”. Questo porta la persona a sperimentare solitudine, talvolta vergogna. Si tratta di condizioni in cui chi soffre di disturbo da sintomi somatici ha ancora meno probabilità di rivolgersi a un professionista. Si riduce così la possibilità di ricevere cure adeguate.
La psicoterapia per i disturbi da sintomi somatici
In effetti, è più difficile trattare un disturbo da sintomi somatici quando si è cronicizzato. Per questo, si raccomanda di rivolgersi a uno psicologo-psicoterapeuta tempestivamente.
Un intervento di assessment psicologico e di supporto può proficuamente migliorare la qualità della vita della persona che soffre di disturbo da sintomi somatici. E può contribuire ad alleviare l’ansia e implementare le strategie di fronteggiamento dello stress.
Un percorso di psicoterapia, inoltre, migliorerà la consapevolezza della persona sui messaggi inviati dal corpo. Questo aiuta a rendere meno probabile la scorretta interpretazione di sensazioni corporee normali o legate a particolari emozioni. In un simile percorso potranno essere ricostruiti anche il senso dei sintomi. Ma anche il significato che la persona attribuisce alla malattia. Per esempio, non è raro che chi soffre di disturbo da sintomi somatici e altre condizioni correlate abbia fatto esperienza diretta di patologie invalidanti, oppure per averne vissuto l’impatto in amici o familiari.
Riferimenti bibliografici
American Psychiatric Association (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th ed.). Arlington, VA: American Psychiatric Publishing.
DATI PROFESSIONISTA
Dr. Giuseppe Iannone
Partita IVA: IT 03610780136
Via Santi Pietro e Paolo, 18 – 20851 Lissone (MB)
CONTATTI
PSICOTERAPIA ONLINE
Tel. +39 339 190 1474
Email: info@giuseppeiannone.it
MILANO
Dinamica Bicocca
Piazza della Trivulziana 4/A
Polo Milanese di Psicologia
Via Coluccio Salutati 5
Centro Medico Poliambulatorio Corso Vercelli
Galleria di Corso Vercelli 25
MONZA
Via Tolomeo 10
CERNUSCO SUL NAVIGLIO
Centro Andrologico Italiano
Via Brescia 23
NOTE LEGALI
Il sito internet
www.giuseppeiannone.it
rispetta la linea guida nazionale
della FNOMCeO in materia di
pubblicità sanitaria, secondo
gli artt. 55-56-57 del codice
Deontologia medica